L'orrore viene dalle acque ed erompe nella quotidianità, incuneandosi nella vita di un gruppo di amici qualunque. Qualcuno ha detto che non esiste niente di più spaventoso di una storia d'amore quando finisce. E forse Cloverfield è anche questo. Un incubo discrasico, la storia di un'apocalisse senza rimedio né redenzione. Un'elegia crepuscolare e, parallelamente, un'epica della devastazione.
A prima vista, potrebbe forse sembrare prioritario concentrarsi sul fenomeno mediatico rappresentato dal film piuttosto che sull'opera in sé. Ma a ben guardare entrambi i contesti - quello strettamente cinematografico e quello collaterale ma non strettamente promozionale - contengono degli interessanti elementi di innovazione. Cercherò quindi di parlare di entrambi gli aspetti, senza privilegiarne uno a discapito dell'altro.
La trama, scarna, si potrebbe ridurre in due frasi: una minaccia mostruosa si abbatte su New York mentre degli amici sono intenti a festeggiare la promozione e l'imminente trasferimento in Giappone (scelta casuale?) di uno di loro. Da quel momento comincia una lotta per la sopravvivenza per le strade e nelle viscere di Manhattan, trasformata in campo di battaglia e terra di nessuno. Che è più o meno quello che era trapelato prima dell'uscita del film, dal teaser della scorsa estate (quando ancora non era citato nemmeno il nome dell'opera, nemmeno sul sito ufficiale http://www.1-18-08.com/, che presentava una manciata di istantanee e uno spezzone che si concludeva con l'enigmatica data associata alla release, il 18 gennaio 2008, appunto) e dalle graduali aggiunte promozionali degli ultimi mesi. Un filo narrativo esile ma tenace, perché consente ai personaggi e agli spettatori di confrontarsi direttamente e senza schermi interposti con quello che è il cuore nevralgico dell'opera: la distruzione. Ed è questo forse il punto di maggior merito del film, voluto da J.J. Abrams e diretto con piglio dogmatico da un quasi esordiente Matt Reeves.
Piccolo inciso. Che Abrams sia un genio del marketing e un grande narratore di storie è indubbio; e allo stesso modo è incontestabile che sia un tantino sopravvalutato da una critica cinetelevisiva fin troppo incline, negli ultimi tempi, ad assecondare le mode del momento. Con esiti non sempre unanimi né condivisibili: è stato così che un'idea potenzialmente straordinaria come Lost, capace di fondere generi e suggestioni eterogenee, è finita nella spirale malefica del gioco al rialzo, della mania di stupire a tutti i costi, nell'esasperazione survoltata della suspense. Ma non divaghiamo.
La distruzione, dicevamo. Ce ne era stato regalato già un assaggio nella Guerra dei Mondi post-11 settembre e nei film strettamente attinenti alla tragedia del World Trade Center. Ma sembrava mancare ancora qualcosa. Una sorta di timidezza, perfino una forma (forse inconsapevole) di autocensura, obbligavano produttori e autori a rivestire la catastrofe di eroismo, finendo così per esaltare nel disastro la successiva rinascita: le capacità di recupero, le doti di resistenza, il sogno innato che in fondo rappresentano la colonna dorsale dell'American way of life. Si trattava, insomma, di un uso didascalico e pretestuoso della tragedia che denunciava un limite evidente nel tornare alla vagheggiata normalità (potremmo dire anche leggerezza) di un tempo.
A colmare la lacuna è arrivato infine Cloverfield, che denuncia i suoi intenti fin dall'inizio: la scelta di intitolare il teaser semplicemente 1-18-08 richiamava, in maniera piuttosto esplicita, la data associata nella memoria di tutti noi alla più incredibile delle tragedie contemporanee, rimbalzata intorno al mondo in una maratona informativa senza precedenti. E la tragedia di una città e delle piccole comunità urbane che la popolano è al centro di Cloverfield. Una storia catastrofica senza speranza narrata con grazia: potrebbe sembrare paradossale, ma ad Abrahms e soci è riuscito anche questo ennesimo miracolo. Spacciarci una storia vista e letta centinaia se non migliaia di volte e riuscire a farcela apprezzare dal primo all'ultimo sussurro. Siamo dalle parti di Godzilla Boulevard, ma manca la simpatia che il lucertolone dagli occhi a mandorla inevitabilmente strappa agli appassionati di tutte le età. Siamo anche dalle parti di Vonnegut e delle sue apocalissi quotidiane senza via d'uscita per i personaggi, ma manca quel tocco di triste ironia che distingueva la penna del maestro americano. Volendo si possono scorgere paralleli anche con il capolavoro di Hideaki Anno Neon Genesis Evangelion, dove appunto una città (in quel caso Neo Tokyo-3) veniva presa d'assalto da invasioni di "angeli" mostruosi che sembravano partoriti direttamente dall'inferno, anche se questa volta manca la deviazione metafisica. Cloverfield è orrore puro, tragedia distillata. E anche lo slancio romantico - il risvolto sentimentale in qualche modo dovuto, ma fortunatamente per nulla scontato, di cui parlavo all'inizio - è destinato a scontrarsi contro le mura invalicabili della fortezza dell'incubo. Orfeo ritrova Euridice al termine del suo drammatico attraversamento dell'inferno metropolitano, ma è solo l'inizio di una nuova discesa nelle tenebre, alla caccia di un'alba che stenta ad arrivare. Quando la luce del sole illumina la scena, è solo per rivelare infine l'ultimo volto della Bestia e per mettere i sopravvissuti di fronte all'irreperabile.
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