Nella storia della letteratura nulla è forse altrettanto simile alla religione del rapporto che critici e lettori intrattengono con l’opera di Thomas Pynchon . L’alone di mistero che avvolge la vita privata dell’autore è un valore aggiunto in questa fascinazione collettiva, molto più di quanto non lo sia per altre inafferrabili celebrità letterarie: se per J.D. Salinger l’invisibilità è chiaramente un’ossessione, che ha coinvolto oltre alle vicende private dell’autore anche la sua produzione, per Pynchon la lontananza dalle scene raggiunge la dignità di un effetto speciale finalizzato allo spettacolo. In virtù di questa scelta – l’invisibilità dell’uomo come punto irrinunciabile nella dichiarazione di poetica dell’autore – la figura di Pynchon pare sublimarsi, innalzandosi alle vette della leggenda letteraria e del mito popolare, anti-icona per eccellenza nella corrente era dell’immagine.
A conti fatti, non è difficile tracciare il parallelo tra l’opera di Pynchon (che in sostanza rappresenta anche quasi tutto quello che sappiamo della sua vita) e un canone di libri biblici. In questa prospettiva, la mole in costante incremento di letteratura critica fiorita sulla sua figura assume i tratti caratteristici di un lavoro pynchoniano apocrifo.
In questa moltiplicazione di prospettive si inserisce anche il presente lavoro, che non ha alcuna pretesa di realizzare una sintesi o offrire al lettore una visione onnicomprensiva di Pynchon, che è e resta un oggetto letterario non identificato. Il discorso che ci sforzeremo di affrontare sarà incentrato sui quattro punti cardinali della sua produzione: la raccolta di racconti Entropia(1984), il romanzo breve L’Incanto del Lotto 49 (1966) e i due romanzi in cui Pynchon ha ridefinito i termini della letteratura contemporanea, spingendola oltre i limiti del modernismo, ovvero V. (1963) e L’Arcobaleno della Gravità (1973).
“Deus absconditus”: una vita fuori dal tempo
Di Thomas Ruggles Pynchon, Jr. si sa molto poco: mai un’intervista, pochi cenni letterari e un paio di fotografie giovanili in cui appare come un sorridente ragazzotto imbrillantinato. Nato l’8 maggio 1937 a Glen Cove, Long Island, la sua famiglia discenderebbe da quel triste giudice Pyncheon che ispirò La Casa dei Sette Abbaini di Nathaniel Hawthorne.Pynchon frequenta la Cornell University, studiando ingegneria, e presta servizio militare nella Marina nel biennio 1955-57. Tornato agli studi, si laurea nel 1959 con una specializzazione in Fisica.Segue un anno di boheme nel Greenwich Village. A questo periodo risalgono i suoi primi racconti, come da lui stesso documentato. Dopo due anni di servizio presso la Boeing di Seattle, nel 1962 ripara in Messico per completare V, suo primo romanzo. Negli anni successivi si sposta con una certa frequenza tra la California e il Messico, portando a termine il suo capolavoro, L’Arcobaleno della Gravità . Seguono sedici anni di silenzio, fino a quando nel 1990pubblica Vineland, sposa il suo agente (o, almeno, così si dice) e si stabilisce definitivamente a New York (o così si crede).La sua fortuna è legata al vasto consenso di critica e al vero e proprio culto di cui è oggetto in vari ambienti accademici americani . D’altro canto, c’è da dire che Pynchon non ha mai dimostrato di apprezzare troppo l’establishment e i suoi riti, né le formalità dell’alta società. Nel 1974, vinto il prestigioso National Book Award per il romanzo L’Arcobaleno della Gravità, mandò a ritirare il premio l’attore comico Irwin Coley, che si presentò come «il più grande esperto mondiale di tutto». Questi particolari, il gusto del mistero e la propensione a un senso dell’humour nero, una forma grottesca di comicità (emblematico il caso della discussa partecipazione a due recenti episodi della nota serie a cartoni animati dei Simpson, possono tornare utili nell’approccio agli aspetti ricorrenti del suo lavoro.Indiscrezioni circolate su internet suggeriscono che il lungo silenzio seguito alla pubblicazione dell’Incanto del Lotto 49, che si protrasse dal 1967 al 1972, sia stato un periodo di intensa dedizione alle droghe. Quello che è certo è che proprio in quegli anni di pendolarismo tra la California e il Messico che prese forma L’Arcobaleno della Gravità, probabilmente l’opera più ambiziosa, titanica e ardimentosa mai tentata con una macchina da scrivere e una risma di fogli (qualcuno ha avanzato l’ipotesi che, almeno nella forma degli appunti di preparazione, il libro abbia visto la luce sui lucidi utilizzati alla Boeing, società presso la quale Pynchon è stato per qualche tempo impiegato). Tutto chiaro? Nemmeno per sogno. A complicare gioiosamente le cose ci si è messa pure la collaudata tradizione americana delle leggende metropolitane. Una di queste vorrebbe che Pynchon non sia altro che uno pseudonimo dietro cui si nasconderebbe Salinger stesso. In realtà, se non altro per il profondo divario che divide i due stili e le due scritture, è facile dubitare della fondatezza di simili insinuazioni.Quel che è certo, Pynchon si presenta come una figura privata estremamente sfuggente e inclassificabile: la sua è già la biografia di un classico, un monumento della letteratura che può essere interrogato solo attraverso le pagine dei suoi libri.
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