In un futuro prossimo venturo per l’autore, un tempo che per il lettore è già presente, il mondo è stretto nella morsa delle multinazionali e la Rete è assurta a perno telematico della politica e dell’economia globale. È il mondo uscito dalla Convenzione di Vienna, nel quale i grandi consorzi (Rizoma, IG Farben, Kymera) si trovano a concludere affari con le isole della rete: Cipro, Grenada e Singapore, tra le altre, sono banche dati offshore, spesso nelle mani degli eredi di rivoluzioni folli come al solito degenerate in totalitarismi ameni. Ma c’è anche qualcun altro, in questo scenario, qualcuno che si oppone al sistema. Ci sono i terroristi delle FACT (Forze Armate di Contro-Terrorismo), le cui azioni sono improntate a un’ideologia di opposizione di destra, condotte da una autentica organizzazione militare che si è trovata nelle condizioni di governare uno stato intero come il Mali. E ci sono anche i ribelli della Rivoluzione Culturale Inadin, una banda di tuareg in lotta per l’indipendenza di un angolo di Sahara e capitanati da un giornalista free-lance, intellettuale e ideologo, una sorta di epigono di Lawrence d’Arabia.
In questo scenario si muove Laura Webster, dipendente della Rizoma costretta a un pellegrinaggio sui sentieri di un mondo sull’orlo del collasso, nel quale i nemici di oggi sono gli amici di domani e nessuno sembra in grado di conservare un’ideologia coerente per più di due pagine di fila senza scadere nel fanatismo più ripugnante.
La stessa Laura, classica eroina schiacciata da un meccanismo troppo potente per poter essere affrontato di petto, col procedere della storia riesce ad alienarsi le simpatie del lettore meglio disposto, riducendosi a pura pedina delle forze che si scontrano per il destino del pianeta e rinunciando a quella vocazione al mutamento (al Movimento) che pareva esercitare un promettente ascendente sul suo giovane animo idealista.
Questo è il grande difetto di Isole nella rete, chiave di volta nell’evoluzione letteraria di Bruce Sterling, senz’altro una delle voci più interessanti (e probabilmente la più impegnata) emersa nella fantascienza dell’ultimo quarto di secolo. Ideologo cyberpunk, forse troppo schierato sul fronte di sinistra nei primi anni ’80, Sterling sembra ritrattare molte delle sue tesi con questo romanzo, sfiorando in più di un’occasione una preoccupante deriva destroide. Di fronte a queste pagine, il lettore fedele non può fare a meno di domandarsi che fine abbiano fatto le teorie rivoluzionarie, ardite e affascinanti del precedente ciclo della Matrice Spezzata, autentico capolavoro dell’autore texano e acme della parabola cyberpunk. Con Isole nella rete Sterling riesce infatti nella non facilissima opera di dissipare tutto il potenziale ideologico dei suoi cani solari capitanati da Abelard Lindsay, cospiratore del Terzo Millennio. E imbastisce una noiosa pantomima post-capitalistica, più vicina alle tesi di Ayn Rand che a Marcuse.
Difficile sostenere il peso delle pagine in cui vengono esaltati gli aspetti ibridi e il valore sociale di un sistema capitalistico post-industriale improntato a uno spirito missionario sospetto, che nella realtà maschera come sempre oscuri giochi di potere. Fastidioso quando l’America viene esaltata per il suo solito spirito individualista e per le sue tendenze corporative, senza affondare il bisturi in questa dicotomia che ormai da un secolo buono spezza l’anima di un popolo a quanto sembra destinato per investitura divina a far da guida (quando non a dominare) per il resto del mondo.
Però anche in questo libro, acclamato da più parti come il testo di riferimento per la narrativa post-cyberpunk, Sterling riesce a offrire qualche barlume del suo antico splendore. Nessuno degli autori in circolazione è infatti capace di offrire uno sguardo altrettanto lucido quando si comincia a parlare di estrapolazione scientifica o economica: la stella di Sterling, oscurata da un eccesso di americanismo, torna a risplendere come ai bei vecchi tempi non appena la sua attenzione si rivolge all’evoluzione dei rapporti tra l’uomo e il mondo, e al ruolo che nel collegamento tra lo spazio interno del corpo e quello esterno del panorama mediatico è coperto dalla tecnologia. La lucidità della sua analisi sfiora lo stile documentaristico di un reporter d’assalto quando nelle pagine di apertura passa in rassegna gli eventi ancora oscuri della storia degli anni ’70 e inizi ’80, senza trascurare il ruolo svolto dall’alta finanza internazionale negli affari interni dell’Italia e del Vaticano. Poi la sua verve si assopisce e resta in uno stato di letargo che dura la bellezza di quasi 400 pagine. Un intervallo nel quale il Nostro, colto da sindrome di rigetto, trova il modo per scagliarsi contro tutto e contro tutti, salvo poi accogliere le istanze di tutte, ma proprio tutte, le parti in campo. Solo in dirittura d’arrivo, con l’ingresso sulla scena di Jonathan Gresham, il già citato rivoluzionario che fonde tratti di T.E.Lawrence con elementi del Colonnello Kurtz, il tono sembra risollevarsi, dispensando ancora qualche sano sprazzo di ideologia sovversiva, con la teorizzazione di un’anarchia tribale post-industriale, un fremito ideologico interessante ma troppo marginale nell’economia del romanzo. Così il tutto finisce ancora una volta irretito nelle maglie di una ordinarietà d’accatto, con un finale posticcio che libera il campo da tutti i malintesi facendo propria una soluzione manichea che colpisce come una pugnalata nella schiena.
Si diceva dell’esaltazione di questo testo compiuta dagli ambienti vicini al post-cyberpunk. Esaltazione quanto mai comprensibile, vista la vacuità dei temi affrontati da autori accostatisi al movimento troppo tardi per poter aggiungere nuove parole al discorso e per questo obbligati, come i musicisti senza talento del passato, alle classiche variazioni sul tema, in una letteratura senza idee che è anche una letteratura senz’anima. Un mondo comunque estraneo alla sensibilità di Sterling, che torna audace quando descrive la Rivoluzione Culturale Inadin: “non è soltanto uno stupido nome di copertura, loro sono la cultura e stanno combattendo e morendo per questo… Non è che quanto abbiamo noi si più puro e più nobile, ma le linee s’incrociano qui. La linea demografica e la linea delle risorse. S’incrociano in Africa in un punto chiamato disastro. E dopo che tutto si è ridotto più o meno a un gran casino. E più o meno a un crimine.”
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