Tornato nell’oscurità elettrica del cavo, Castor calibrò ancora una volta le sue coordinate d’intersezione e la individuò mentre tentava la fuga verso i territori del Nord. Anche lei seguiva un sentiero cablato, dopo essersi interfacciata direttamente con la linea dell’alta tensione – proprio come lui – e in questo denunciava un netto allontanamento dalle consuetudini delle personificazioni che l’avevano preceduta.Prima di allora Castor l’aveva intercettata in squallidi motel di periferia (camere economiche che urlavano, nell’essenzialità delle loro geometrie vuote, la crudeltà dell’abbandono, la paura del silenzio, il terrore della solitudine). L’aveva incrociata in misteriosi villaggi di montagna, dove sperava di sfuggire alla caccia frapponendo la distanza tra se stessa e la frontiera tecnologica del mondo sopravvissuto al disastro. L’aveva individuata mentre cercava di nascondersi tra la folla, per le strade delle ultime città ancora degne di questo nome o nei campi di accoglienza per gli sfollati, tra i profughi ammassati nelle metropolitane oppure gli assediati riparati nei bunker antiaerei sottoterra.

Stavolta, invece, Lei sembrava aver appreso una nuova strategia.

Lo stava affrontando sul suo campo, mentre fuggiva lontano dagli uomini, lontano dall’Attrattore Immobile, verso i ghiacci del gelido Nord.

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Il capolinea poteva essere solo uno: una stazione di radiometria spaziale, i giganteschi paraboloidi dei radiotelescopi puntati verso un cielo impassibile. La via di fuga definitiva. Il suo primo fallimento?

La necessità di giocare d’anticipo lo indusse a scegliere una deviazione improbabile. Commutò su una linea telegrafica abbandonata, scivolò nei cavi della rete telefonica e si diresse verso la stazione. Forse sarebbe arrivato prima di lei.

Saltò dai cavi del telefono a quelli dell’elettricità.

Sondò le postazioni in rete alla ricerca di qualcuna momentaneamente in uso, individuò il suo obiettivo, poi provocò un’interruzione alla linea di alimentazione delle antenne, augurandosi di essere ancora in tempo a sbarrarle l’ultima via di fuga verso la libertà. Subito dopo staccò il monitor alla postazione precedentemente identificata e attese che l’operatore controllasse i cavi per spiccare un nuovo salto.

Nel suo nuovo corpo, la prima cosa che vide fu una donna in tuta grigia che lo osservava: le braccia incrociate sul petto, una spalla contro lo stipite della porta, l’espressione d’attesa dipinta in viso mentre lui la guardava.

– Sei arrivato, finalmente – disse Lei con atteggiamento di sfida.

– Credevo di averti preceduta.

– Credevi male – lo rimbeccò Lei, staccandosi dalla soglia e dirigendosi verso il terminale di controllo. Si trovavano nella Sala Elaborazione Dati dell’osservatorio, lontani mille miglia da qualunque altro essere umano su quel pianeta. Il che voleva dire ben poco, come dimostrava l’esperienza di Castor, sebbene in un’altra epoca quelle condizioni avrebbero potuto fare la differenza. Un altro tempo, ma non allora.

– Non sposta di molto le cose – replicò mentre la guardava sedersi al desktop, incurante di ciò che adesso avrebbe fatto. Era in mano sua.

– Credi davvero?

Castor la guardò mentre il dubbio, per la prima volta, si faceva strada in lui. – Che cosa stai facendo? – chiese senza troppa apprensione.

– Volevo solo vedere com’eri – rispose quella, con un candore che Castor difficilmente le avrebbe riconosciuto. – Adesso ho appagato la mia curiosità. Posso ripristinare l’efficienza dei sistemi. Devo completare la mia missione.