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L’orizzonte remoto racchiudeva uno scenario di morte e desolazione. Macerie e relitti erano le ultime tracce di una civiltà che aveva mostrato un incredibile compiacimento nell’autodistruzione. Il vento del tardo pomeriggio spazzava campi deserti, sollevando torrenti di sabbia.

Alberi scheletrici costeggiavano il suo cammino, spettrali figure allineate in una processione funeraria. Il cielo a cui protendevano gli artigli brillava di un azzurro elettrico, alieno.

Castor avanzava lungo la strada ferrata, un sentiero di ruggine che cristallizzava nella rovina sogni di una gloria ferroviaria dissipata nel tempo. Era solo, con l’universale silenzio delle cose morte a compenetrare il mondo intorno a lui. Camminò imperterrito fino a raggiungere la stazione.

L’edificio si stagliava fiero contro il cielo profondo e immobile, congelato in una sfumatura metafisica.

Castor saltò sulla banchina, spazzata da un vento radioattivo che soffiava via cespugli rinsecchiti e polvere. Un vecchio se ne stava seduto su una sedia impagliata, fumando mestamente una pipa intagliata nel legno. Sembrava gustarsi il silenzio del mondo, oppure i suoi occhi erano fissi su un panorama a lui solo visibile.

Rughe profonde tracciavano nel volto dello sconosciuto una mappa antica come quel posto. Castor gli si avvicinò. Il vecchio si sfilò la pipa di bocca e alzò su di lui i suoi occhi. Erano azzurri e vividi, come il cielo.

– È andata via – disse con voce roca e distante. – Il treno è già passato – proseguì, distogliendo lo sguardo mentre si apprestava a immergersi di nuovo nei suoi pensieri. – Non passerà più di qui – concluse poi, tirando dall’arnese una nuova boccata di fumo.

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La cabina elettrica era circondata da uno steccato che aveva smesso di assolvere ai suoi doveri di sicurezza da almeno un paio di epoche. Una distesa di rovi e sterpaglie la separava dalla stazione diroccata. Castor la raggiunse graffiandosi gli stinchi e le ginocchia sotto la stoffa dei pantaloni, soffocando tra i denti il dolore delle ferite sanguinanti. Scavalcare lo steccato fu uno scherzo, come divellere gli sportelli arrugginiti.

La cabina si aprì con un cigolio che penetrò nella terra e nelle ossa. Alcuni fili erano stati strappati via dalla centralina, altri erano stati rosicchiati dai topi o dagli scarafaggi. Qualcuno era ancora connesso, come suggerivano i valori indicati dall’amperometro.

Castor avvicinò le mani all’impianto e lasciò scivolare le dita attraverso la plastica impolverata, sotto le guarnizioni gommate, giù fino alle stagnature. Poi si preparò al contatto e chiuse i pugni intorno al metallo.

Il suo corpo chiuse un arco elettrico da ventimila volt.

Castor commutò.

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La transizione di stato e di forma, ancor più dell’inizio della ricerca, gli richiamò alla mente il ricordo delle precedenti battute di caccia. Aveva inseguito la preda lungo piste mutanti, schiacciato da scenari che cambiavano al ritmo dei capricci del bersaglio mobile: era stato obbligato a muoversi sul terreno impervio e accidentato delle sue proiezioni immunitarie.

Ogni volta, Castor aveva fiutato nelle azioni della preda, nei suoi schemi comportamentali segreti, i segni di una proiezione ideale di Lei. Ogni volta, allo sfumare dell’enigma, il suo mistero era sopravvissuto intatto.

Questa volta, decise, avrebbe violato anche la sua ultima Verità.

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