The Invasion, come tutti i recenti remake di classici di fantascienza (apre la fila War of the Worlds di Spielberg), punta su un doppio mix di azione e riflessione. Da un lato cerca così di svecchiare le ovattate, quasi sonnolente atmosfere dell’originale dove il massimo dell’azione sta in una fuga disperata dei due protagonisti tra le aride valli californiane; dall’altro, cerca di introdurre forzatamente una metafora che si riallacci all’attualità e doni spessore alla trama. Si cerca insomma di accontentare tutti i gusti: quello del pubblico degli action-movie che apprezzerà il ritmo incalzante e le scene adrenaliniche, e quello del pubblico più sofisticato che vuole uscire dai cinema con qualcosa su cui riflettere. Del resto l’intento di Siegel nel ’56 non era poi tanto dissimile: ci fu chi vi lesse in controluce l’avvertimento per la possibile presenza di una quinta colonna comunista in America, chi la sottile accusa al delirio maccartista dell’epoca. Molto probabilmente Siegel voleva soltanto sottolineare il rischio del conformismo e di un futuro avvento di una società che, dedita solo al soddisfacimento materiale attraverso la rimozione di qualsiasi macchia in un quadro perfetto, avrebbe finito per cancellare persino le emozioni. Che poi ognuno interpretasse la metafora a modo proprio a seconda delle rispettive inclinazioni, questo era indubbio. Finney intendeva qualcosa di molto simile, che accenna soltanto alla fine della storia: la possibilità che esista spazio, in un mondo che ha razionalizzato tutto, anche a fatti all’apparenza incedibili. Lo scrittore intendeva in qualche modo invogliare il lettore a non cedere alla tentazione moderna di far rientrare ogni fatto in uno schema logico, ma di lasciare sempre uno spiraglio per qualcos’altro. Il rischio sarebbe altrimenti lo stesso che paventava Siegel, la sordità dell’essere umano davanti a tutto ciò che non rientri nella quotidiana routine della vita. E certamente il veicolo di un simile messaggio non poteva che essere una tipica persona qualunque, immersa nella monotonia del proprio paese e che reagisce a stimoli come chiunque altro: niente improbabili piani risolutori, niente uomini ordinari che si trasformano in eroi, ma persone in carne ed ossa che fuggono in preda al panico e che sono dominate solo dal cieco istinto di sopravvivenza.
The Invasion non vuole tentare operazioni troppo discostanti dall’originale, come quella attuata dal terzo remake di Ferrara: molti dialoghi sono simili, diverse trovate non sono cambiate, c’è però una curiosa inversione di ruoli per cui ora protagonista indiscussa è la dottoressa Carol Bennell (Kidman), mentre la figura maschile – il dottor Driscoll (Craig) – è il comprimario. Non sarà sfuggito a chi ricorda la storia originale che Bennell era in realtà il cognome del dottor Miles, il protagonista, e che Driscoll era la sua fidanzata Beckie. Ma quello che davvero cambia non è tanto la “svolta femminista” dei personaggi, ma il messaggio che sceneggiatori e registi hanno voluto dare allo spettatore, naturalmente aggiornato per i nostri tempi. Ognuno vi ha visto qualcosa, chi l’accusa agli errori dell’amministrazione Bush nella lotta al terrorismo e chi al contrario l’avvertimento a vigilare sulla possibilità che il nemico sia già tra noi e si stia silenziosamente intrufolando nelle nostre vite per distruggerci. Insomma, cambiano i cattivi – ieri i comunisti, oggi gli estremisti islamici – ma la paura resta. Più originale la critica che si può leggere riguardo gli interessi di lobby sui temi della sanità, come il recente caso della pandemia aviaria che ha provocato un business notevole per le cause farmaceutiche e si è rivelata poi la solita bolla di sapone: in America ha fatto scandalo la rivelazione che tra le lobby sanitarie più avvantaggiate dalla corsa ai finanziamenti governativi ci fosse la Gilead il cui azionista di maggioranza era l’ex ministro della difesa Rumsfeld. The Invasion ci permette - come già il suo evidente omologo già citato, ossia il remake di Spielberg di War of the Worlds (2005) - di leggere in controluce le ansie della società americana contemporanea: la sempre maggior sfiducia verso i propri governanti, le ipotesi di complotti mia sopite, l’idea che solo il self-made man americano, l’uomo qualunque, potrà salvare la patria dalla minaccia incombente. E tuttavia, rispetto al classico di Siegel, i protagonisti non sono molto a loro agio nei panni di gente comune e sembrano lontani anni luce dagli anonimi interpreti della prima “Invasione”, nei quali ciascuno poteva identificare se stesso. Il cinema americano post-11 settembre non riesce infatti a liberarsi dalla sindrome di Superman, quell’inconscia speranza in persone che sembrano normali cittadini ma che poi si rivelano insospettabili salvatori dell’umanità (e di qui tutto l’attuale enorme successo negli USA per i film dei supereroi).
Prevedibilmente, la critica americana lo ha stroncato alla sua prima lo scorso 17 agosto, ma soprattutto gli incassi sono stati davvero magri. Non tanto per gli attori quanto per la storia e soprattutto per l’affrettato finale che non ha convinto nessuno, né pubblico né addetti ai lavori. Alcuni lo hanno definito, tra le quattro versione cinematografiche della storia di Finney, la peggiore in assoluto. In generale ha dato l’impressione di un film che non è né fantascienza, né thriller, né horror, né psicologico, ma vorrebbe essere tutte queste cose insieme. Forse a Hollywood si dovrebbe ricominciare a pensare che, per fare un bel film, basta una buona storia originale, un cast solido non necessariamente preso dallo star-system del momento e un regista con le idee chiare. Senza voler a tutti i costi sfondare, ma con l’intenzione di tornare a fare il proverbiale “buon, vecchio film di fantascienza” che tanto ci manca.
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