– Allora culo di latta, la buttiamo giù questa cazzo di porta?
Il mio principale. Riconoscerei la sua voce tra un milione di suoni. A dire il vero, e non per vantarmi, l’ultima versione del mio speech analyser mi consentirebbe di distinguerli uno per uno, tutti ed un milione. Ha un pitch inconfondibile, tarato a 111 Hz, con un range di oscillazione di trenta punti base e uno stress di grado quattro. Il timbro è caldo, esotico, sensuale, simile alle fusa di un gatto. Merito del nuovo software di gestione del processore vocale che consente di modificare le frequenze formanti. Dice di averlo comprato su Voice Up. Dice che è roba buona, originale, con il copyright, non una di quelle copie fetenti che si trovano dai rigattieri dell’Underground. Col crack aggiuntivo è in grado di risintetizzare la voce e farsi passare per un’altra persona o non farsi riconoscere affatto. Molto utile quando si lavora nel giro. Ma la voce del macho latino è quella che preferisce. In più, e questa è tutta opera sua, scopiazzando da qualche vecchio olofilm, ci ha aggiunto una serie di atteggiamenti affettati e uno slang particolarmente colorito.
Veste elegante, il mio principale. Cose importate, dalle sartorie di Old Peking o dalle maisons di New Paris. Abiti firmati, di grande pregio e dal costo spropositato, della medesima tinta: bianco 127 o nero 925. Giacca, camicia, cravatta, pantaloni, cintura, calzini, intimo, scarpe e accessori vari, tutto è rigorosamente intonato. Corregge persino la colorazione dell’iride e il pigmento della pelle, iniettandosi sostanze tingenti, col risultato di diventare un’unica ampia sfumatura. Così passa dal bianco più sfavillante al nero più tenebroso. In questo assomiglia un po’ a me. Anch’io posso definirmi, in estrema sintesi, un bicromatico, composto da metri di codice binario, da una sfilza lunghissima di zeri e uno, di stati acceso o spento. “Ci vuole carisma” ripete sempre. Carisma è la sua parola magica.
Con me tutta questa sceneggiata se la potrebbe anche risparmiare. Non ha importanza cosa indossa o il linguaggio che usa nell’assegnarmi i compiti, purché gli ordini siano chiari e logici e, soprattutto, possibili. D’altra parte sono consapevole – ho un’intera sottolibreria dedicata alla mia consapevolezza – che personificare le cose è un comportamento tipico dell’uomo. Dà loro sicurezza e tranquillità, la sensazione di avere un qualche potere sulla realtà esterna. Così io – ho un’altra intera sottolibreria dedicata alla mia senzienza – unità cibernetica di quarta generazione, in sigla HCU79866-2072-IV PLUS, composto da oltre sei miliardi di pezzi, ciascuno col proprio part-number, e da circa tremila applicativi software, su cui sono registrati un migliaio di patents all’Ufficio Brevetti, sono diventato culo di latta. Ma se potessi scegliermi un nome, mi piacerebbe Mr. Puzzle. Suona bene e mi sembra più preciso. Mi piacerebbe?
– Ma che cazzo ti prende? Sei più lento di un monopattino a batterie solari, oggi.
In effetti, la procedura di monitoraggio principale rileva delle piccole anomalie: momentanei picchi di energia della batteria secondaria, come se qualche routine assorbisse energia autonomamente. Comunque il controller di sicurezza non ha lanciato nessun alert specifico e non vi sono apparenti malfunzionamenti del sistema. Eppure sono stati generati ventisette rapporti di stato negli ultimi dieci minuti. Ma sono tutti vuoti e non riesco a capire da quali applicativi siano stati originati. È come se avessi delle piccole lacune (amnesie) nelle celle di memoria. Il protocollo prevedrebbe l’attivazione della procedura di recovery. Ma qualcosa mi obbliga a ignorare quel protocollo. Mi sento come se fossi… ubriaco? La mia unità logica mi fa notare l’incongruenza di tale considerazione. Considerazione?
– Da quando ti ho portato a farti revisionare i circuiti, ti comporti in modo strano. Spero che quella sgualdrina non abbia fatto casini con i tuoi chip. Con quello che ho pagato. Altrimenti sono cazzi. Ma ora occupiamoci di quest’altra sgualdrina di gomma.
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