Alle prime luci della bomba
“Abbiamo il potere di dare un nuovo inizio al mondo”, diceva a fine Settecento Tom Paine, padre della Rivoluzione americana. Scrivendo una storia delle immagini del dopobomba nella fantascienza USA, si partirebbe dal legame fra catastrofe e rinascita nazionale. Un po’ laica, un po’ religiosa, l’apocalisse scientifica è inscindibile dalla nuova creazione. Ripartire da zero, ma con una drammaticità infinitamente superiore alla colonizzazione di un nuovo mondo: c’è la tragedia, e c’è l’ironia.D’altra parte, il dopoguerra impone un’idea di ricostruzione nazionale nel nome della difesa nucleare. L’inno nazionale statunitense, in fondo, inizia con la storia di un bombardamento, iniziato “alle prime luci dell’alba”.
E l’alba nucleare della bomba sembra proiettare, paradossalmente, quella speranza, talvolta con serietà agghiacciante da parte di scienziati, politici e militari, ovviamente interessati a trasformare l’industria bellica in forza trainante dell’economia e del consenso sociale. Per l’ironia, possiamo riguardare uno straordinario documentario del 1982, Atomic Café, per la grottesca serietà della Guerra fredda possiamo rileggerci un libro dello storico Paul Boyer, uscito nel 1985 in occasione del quarantennale di Hiroshima, intitolato By the Bomb’s Early Light: alle prime luci della bomba. Per molti autori, è il comico lo strumento invocato nella lotta contro le illusioni (o le tremende realtà) di onnipotenza degli scienziati: sia il Dottor Stranamore del film omonimo di Stanley Kubrick, sia il Dr. Bloodmoney delle Cronache del dopobomba di Philip K. Dick si sentono Dio in terra. D’altra parte, la nuova edificazione della civiltà è chiaramente una missione religiosa in Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller. Proprio per questo assumono forza particolare le storie sulla responsabilità del creatore, come i racconti dello scienziato nucleare Leo Szilard o Limbo di Bernard Wolfe, o quelle che rivelano l’inganno alla base del nuovo consenso, come nei distopici The Long Tomorrow di Leigh Brackett e La penultima verità di Dick.La speranza, quando c’è, è affidata a mondi pastorali: la transizione per una dimensione non tecnologica offre la possibilità di un recupero dell’innocenza perduta. Il romanzo più affermativo è Davy di Edgar Pangborn, ma anche nella Brackett, una volta sconfitta l’oppressione del fondamentalismo antiscientifico, si apre la possibilità di un domani. Molto del pastorale hanno le Cronache del dopobomba di Dick che presentano, con sfumature in parte umoristiche, in parte tragiche, l’inevitabile lotta per una tecnologia dal volto umano, superando vecchi e nuovi conflitti di potere. Il romanzo di Dick, infatti, è l’unico a proporre il confronto fra il mondo precedente e quello successivo al drammatico momento dell’olocausto nucleare: per altri, come Theodore Sturgeon e Ray Bradbury, non esisterà nulla “dopo” la bomba.
Sempre di più, in seguito, il dopobomba diventa un inferno, e gli scenari sono, negli anni 60, quelli di La pista dell’orrore di Roger Zelazny o di canzoni come A Hard Rain’s Gonna Fall di Bob Dylan, e poi il ritorno alla legge della giungla dei vari film di Mad Max. Infine, nell’era della bomba al neutrone e degli ordigni nucleari tascabili, le distruzioni parziali, come nel Grande tiratore di Vonnegut, nella Famiglia nucleare di Marc Laidlaw e in opere di Michael Swanwick e James Morrow. Ma a questo punto le immagini dell’olocausto globale sono biologiche ed ecologiche. Il nucleare si lega, invece, all’idea di una comunità apparentemente protetta, le cui recinzioni sono sempre a rischio di crollare: come nella biblica città di Gerico, che dà il nome alla Jericho della serie, città immaginaria situata al confine opposto dello stesso Kansas in cui, anni fa, era stato ambientato The Day After.
La bomba non è comica
Nelle cronache italiane del dopobomba, inevitabilmente, i modelli sono diversi. Innanzitutto è difficile che il punto di vista sia quello di chi la scatena. Altrettanto rara è una vera rinascita del mondo: dopo l’apocalisse, c’è quasi certamente l’inferno. Da Scerbanenco a Curtoni, da Bonvi a Ferreri i dopobomba italiani più riusciti sono mondi senza speranza, scenari materiali e psichici in cui i protagonisti si ritrovano vittime di scelte e forze incontrollabili. Scritti, fumettistici o cinematografici, sono soprattutto storie di innocenza (personale e nazionale) perduta o rubata.
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