La fantasia dei Rinati Stati Uniti d’America, nata come lo scherzo di un derelitto alle prese con i crampi allo stomaco e i brividi per il freddo, si trasforma progressivamente in una realtà, maturando una sua storia di sacrifici e abnegazione e resuscitando attraverso queste esperienze – a loro modo estreme – la coscienza civile di un popolo. La sfida che alla fine verrà contrapporsi Gordon il reduce con i veterani biopotenziati al tempo della guerra e ora guadagnati alla causa di Holn è un duello tra un nuovo oscurantismo di stampo medievale e i secoli di terrore e progressivo, irreversibile imbarbarimento che seguiranno, e l’alba di un nuovo giorno. La civiltà, è la conclusione del libro, è fatta da tutti i suoi membri: sono loro il suo punto di forza e, allo stesso tempo, il suo tallone d’Achille.
Meno concettualmente sofisticato ma in qualche misura affine alle atmosfere del Postman di Brin è un altro anime di culto, il violentissimo Ken il guerriero (Hokuto no Ken, 1983), concepito come manga da e poi trasformato in cartone animato di successo. Nelle due serie televisive che gli furono dedicate, Kenshiro è un guerriero un po’ ronin e un po’ cavaliere solitario che vaga per le lande di un pianeta devastato dall’olocausto nucleare che sul finire del XX secolo ha decimato l’umanità e prosciugato gli oceani (memorabile la Statua della Libertà decapitata che giace nel letto in secca dell’Hudson, nella sequenza di apertura). Motivato da una smisurata sete di vendetta ma disciplinato dal codice della Sacra Scuola di Hokuto, una prestigiosa arte marziale retta da un suo bushido, a ogni tappa Ken ha modo di esercitare anche la sua consuetudine con la giustizia, opponendo all’ultraviolenza degli squadroni della morte che imperversano nel deserto la sua profonda conoscenza delle tecniche marziali. Più che per i combattimenti, che esauriscono la loro componente di novità un po’ presto per reggere le monumentali dimensioni dell’opera (forte di due serie di rispettivamente 109 e 43 episodi), sono gli scenari da medioevo feudale prossimo venturo a tenere banco, tra villaggi fantasma e avamposti fortificati, metropoli devastate e palazzi sontuosi in cui dimorano i nemici di Ken, depositari dei segreti di scuole rivali come il Nanto. È qui che “l’uomo dalle sette stelle” – così detto per la costellazione del Gran Carro che veglia sulla sua scuola e per le cicatrici delle ferite infertegli dal malvagio Shin nel corso di un combattimento sleale – ci guida alla scoperta di un vero inferno in Terra. Malgrado la sua semplicità, tutto sommato la serie costituisce per i più giovani una valida iniziazione ai territori della catastrofe.
La nostra prospettiva eurocentrica ci porta a considerare l’eventualità di una catastrofe globale sempre da un punto di vista vicino all’Occidente, ma la consolidata tradizione nipponica insegna che validi spunti sul tema possono venire anche dall’Est. Se la produzione del Sol Levante è tuttavia familiare a molti appassionati cresciuti con i cartoni animati di produzione giapponese, può destare stupore e curiosità un misconosciuto lungometraggio del lituano Sharunas Bartas: Lontano da Dio e dagli uomini (titolo originale: Few of Us, 1996) è un film-UFO, come ebbe a definirlo l’Unità alla sua uscita. Un lavoro di difficile interpretazione, se non fosse per le note di produzione che lo accompagnarono in giro per festival e rassegne, dove venne presentato come un viaggio nella natura più selvaggia, alla scoperta del senso più profondo e meno afferrabile dell’esistenza. Una donna – forse un’aliena, forse una giornalista o una dissidente politica, l’ambiguità delle note contribuisce a mantenere sfumati i contorni della sua figura – osserva dall’alto dell’elicottero che la trasporta l’ostilità della steppa. Sbarcata a terra, viene abbandonata a se stessa, costretta a sopravvivere in un microcosmo isolato dal resto del mondo, nel cui silenzio dell’incomunicabilità si rincorrono gli echi di una distruzione lontana. La Bomba ha forse devastato il resto del mondo, ma il suo fragore giunge attenuato al livello di un sospiro sotto la soglia dei sensi catturati dalla natura primordiale della Siberia. Forse la distruzione ha riguardato invece solo il rapporto tra gli uomini, costret ti a condividere questa terra di nessuno, ostile e inospitale come un limbo dantesco, costretti a confrontarsi (e riconoscere la rispettiva esistenza) solo nelle occasionali benché cruente esplosioni di violenza, pur sempre finalizzate all’annientamento dell’altro. Il magistrale tocco di Bartas rende la visione di quest’opera un’esperienza estrema, assolutamente unica nel suo genere: nell’ipertrofia dei silenzi e delle scene interlocutorie, spesso costituite da panoramiche aperte sull’orizzonte immenso della Grande Russia, gli incontri tra esseri umani scandiscono un’esistenza sospesa al di fuori dal tempo e compongono un quadro iperrealista in cui viene trasfigurata la componente di alienazione e insufficienza relazionale che domina le nostre vite.
La ricostruzione di un nuovo ordine, nel caos atavico che regna sovrano tra questi orizzonti immensi, è un’impresa improponibile, più che ardua.
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