Principalmente Lost Planet: Extreme Condition dimostra come il passaggio dalla console al Pc possa avvenire anche indolore, addirittura guadagnando punti per quello che concerne la spettacolarità delle visuali, la duttilità del sistema di controllo. Dimostra che Microsoft aveva ragione a proposito delle potenzialità delle piattaforme di sviluppo unificate. Basi di lavoro condivise come nel caso di videogame progettati per l’ambiente Windows e Xbox 360. Lost Planet nasce originariamente per quest’ultima, con una giocabilità western che la veste a pennello, inserita in un’affascinante iconografia orientale, colta mentre strizza l’occhio all’occidente.
Temi ricorrenti che si incontrano in una pioggia di schegge di cultura pop. Ci sono i robottoni giapponesi, nella forma di straordinari esoscheletri meccanici, incantevoli ricordi infantili superumani che rappresentano al contempo l’ingranaggio ludico e la pietanza più invitante preparata da Capcom per il suo banchetto sul pianeta ghiacciato Edn III. Il nuovo mondo di un remoto futuro, in cui i terrestri si scontrano con le condizioni inospitali della superficie e una razza di organismi “xenomorfi”, gli akrid. Alieni letali quanto preziosa fonte di energia, di calore, che assume ancora più importanza quando il pianeta sul quale ci si trova si caratterizza per temperature perennemente centinaia di gradi sottozero.
Più che sulla trama, rarefatta come l’aria di Edn III, Lost Planet costruisce il racconto sull’atmosfera. L’avventura di Wayne (l’attore Lee Byung-Hun), lo smemorato sulle tracce del mostro che avrebbe assassinato il padre, si perde sullo sfondo delle ambientazioni, coperta dalle nevicate. Infinite distese candide e tormente che confondono le percezioni come miraggi di un gelido deserto da attraversare solitari. La memoria le accosta per l’intensità dei momenti alla morsa spettrale dell’Antartide nella Cosa di Carpenter, il film. Carpenter che torna spesso, con il suo western, fondendosi qua e là con Aliens, Starship Troopers, Pitch Black, cristallizzato negli stormi di akrid che disegnano fiumi spaventosi nell’aria.
Pur seguendo una formula di gioco fondamentalmente classica, progressivamente lineare, violentemente istintiva, Lost Planet canalizza sensazioni forti e, nel suo guardare al passato (cominciando dalla rigida divisione in missioni), riesce comunque a offrire lampi unici. Mantenendo una correttezza formale che richiama gli sparatutto della vecchia scuola, con le gocce di calore rilasciate dai nemici sconfitti come surrogato di catene e combinazioni, incastrato in un modello metabolico ispirato al titolo Xbox per eccellenza, Halo.
Se nel gioco Bungie la barra della vita era subordinata all’utilizzo dello scudo energetico, in Lost Planet l’indice di salute è esplicitato dal calore corporeo, che sottende il bisogno durante le partite di rigenerarlo e proteggerlo continuamente, per esempio con le vital suit, le armature robotiche, leit motiv interpretato magnificamente dal team di Kenji Inafune. Produttore di quest’ultima fatica Capcom come del fantastico Dead Rising e artefice del successo di Onimusha, è in un vero stato di grazia. Per una volta apprezzabile tanto su Pc che su console. Nel primo caso, con pad o con tastiera, monitor o tv hd e un impatto audiovisivo in certi scorci devastante. Grazie a tutta una serie di chicche grafiche esclusive per i fortunati della gang directX 10.
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