Come sarebbe stato Trappola di cristallo se le forze speciali non si fossero rivelate una ciurma di incapaci? Forse qualcosa di simile a Tom Clancy’s Rainbow Six Vegas, fanfara a stelle e strisce, giocata sul tema dello sparatutto tattico, online e offline.
Il reparto d’élite nato dalla penna del romanziere americano viene inviato a Las Vegas, per liberare la città da una marmaglia ben organizzata di terroristi che la tiene in pugno. Nel frattempo, il gruppo operativo Rainbow è cambiato. Dopo Ding Chavez, tocca a Logan Keller guidare la squadra sul campo. Ma è tutto una novità l’ultimo Rainbow Six.
Praticamente identico nelle versioni Xbox 360 e Pc, sposa con inedito fervore uno stile cinematografico vicino, per gusto e soluzioni tecniche, alla serie parallela Ghost Recon, da cui eredita tangenzialmente anche qualche porzione di trama. Come per i “fantasmi” dell’esercito Usa, anche nel caso del team “arcobaleno” l’origine dei problemi sembra trovarsi in Messico e, sebbene il grosso dell’azione di Vegas si concentri tra i viali e i palazzi della capitale dei casinò, non mancano sortite oltre confine.
L’idea è di creare un contesto fantapolitico più ampio e coerente con il resto del catalogo di videogame firmati Tom Clancy. Funziona fin tanto che non si vuole chiedere troppo al racconto, ancora relegato a un ruolo marginale in confronto allo sviluppo dell’azione. La storia, in Vegas, serve come collante e sfondo di ciascuna incursione del team. Ai film, Ubisoft conferma preferire l’efficienza delle operazioni, senza grossi ricami sugli eventi o sui personaggi. Ciò non toglie che il nuovo Rainbow Six sia allo stesso tempo capace di imbastire scene interattive degne dell’ultimo blockbuster hollywoodiano. È stato fatto molto per rendere i momenti di gioco spettacolari. Quando, in una delle missioni clou, si sorvolano le luccicanti strade della notturna Las Vegas, prima di calarsi sul tetto di un hotel e successivamente giù, lungo le vetrate, non si può che rimanere meravigliati dalla teatralità della sequenza. Di attimi come questo, Rainbow Six: Vegas è pieno.
La chiave di volta è il ritmo, sincronizzato in modo da mediare fra il desiderio di autenticità del giocatore e l’eccezionalità della messinscena, che risponde ai bisogni dello spettatore. Questa direzione porta due conseguenze e viceversa. Vegas preferisce non perdersi in preamboli e catapultare direttamente nell’azione, costringendo il giocatore ad adattarsi al volo alle situazioni. Il briefing essenziale fornito durante i trasferimenti e l’eliminazione delle fasi di pianificazione si inseriscono nell’ottica. Ne guadagna l’incedere, che si fa più incalzante, appunto cinematografico. Nonostante la sensazione di insicurezza venga in parte mitigata da nemici e accadimenti legati alle logiche di una sceneggiatura ferrea delle missioni.
Fortunatamente non ne soffre eccessivamente il margine di manovra. Il sistema di comando della squadra, sensibile al contesto, permette di orchestrare in un paio di clic anche i movimenti corali più complessi, come coordinare il proprio team per ripulire dai terroristi una stanza con gli ostaggi. Ubisoft ha lavorato prodondamente per ottenere una maggiore scorrevolezza dell’azione, a vantaggio dell'andatura. L’aspetto più interessante è l’introduzione di un'opzione di copertura dinamica, che caratterizza la cadenza sincopata degli scambi armati: raggiunto un riparo, l'agente vi ci si accuccia contro, mentre la visuale passa fluidamente dalla prima alla terza persona, mantenendo la capacità di fuoco, non necessariamente la precisione. Queste dinamiche "a nascondino" rappresentano il cardine, il metronomo, di sparatorie particolarmente intense. Quasi un peccato non siano il tema principale. In compenso, rispetto a Gears of War che le ha elette suo fondamentale, in Rainbow Six: Vegas sono solo una faccia tra le tante di un gioco concentrato, ma non avaro di stimoli e trepidazioni.
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