Credeva di essersi lasciato alle spalle per sempre i giorni dell'arena, della folla urlante, dei gladiatori costretti a combattere come animali da spettacolo. Credeva di aver saldato il conto con il fato. Ma quando il suo mondo di pace viene distrutto e i suoi amici uccisi, comprende che alla violenza non si sfugge. Se un destino di sangue è ciò che gli dei vogliono per lui, sangue sarà, decide Valerio. E da quel giorno, gettata la bisaccia di medico, la spada diventa la sua compagna. Ma non è solo la voce della vendetta a guidarlo. E anche il richiamo di un simbolo, un oggetto che dona invincibiità a chi lo possiede: l'aquila della legione Augusta, scomparsa nella foresta di Teutoburgo nelle ore della disfatta e mai più ritrovata.
(sinossi tratta dal sito Unilibro).
In realtà questo romanzo è la seconda parte di una trilogia di cui manca ancora la sezione finale; il primo episodio, Il grande gladiatore, non ho avuto ancora modo di leggerlo e confesso di essere incappato in questo Notte del gladiatore per caso, acquistandolo come per scommessa.
Per me, che amo il periodo antico di Roma, che adoro le reminiscenze di una vita così lontana, ma ancora pulsante nel tessuto psichico europeo (soprattutto italiano, soprattutto romano) leggere queste pagine ha rappresentato un viaggio intenso, non solo per le ricostruzioni storiche che ho incontrato di pagina in pagina, sia di genti che di luoghi, ma soprattutto per le sensazioni di empatia col paganesimo che vi sono impresse. Spesso, nel libro, si fa riferimento alle antiche divinità con un piglio colloquiale che somiglia a quello che si usa, ancora oggi, col Cristianesimo; la differenza si sente, però, perché mentre nella religione cristiana tutto assurge a un livello di continuo miracolo, di ordini impartiti dal superiore all'essere inferiore, nel romanzo rivive lo spirito più genuino del rapporto uomini-dei, ovvero il conversare, la inarrestabile ricerca serena di simboli naturali che interpretano il volere delle divinità. Ciò è qualcosa che fa apparire tutto l'universo come un luogo fittamente legato, un concetto che col Cristianesimo si è inesorabilmente perso in dottrine complicate, in elucubrazioni politiche intrise di Neoplatonismo che nulla hanno a che spartire con lo spirito e le percezioni autentiche, quelle che fanno rabbrividire al centro di un bosco, negli spettacoli assoluti e imponenti della Natura, in un luogo infestato da presenze oscure.
Nel romanzo c'è tutto ciò, e allora è un formicolare di sensazioni, di percezioni, di sottili brividi che altro non fanno che riportare il lettore davvero al 70 d.C., quando Vespasiano regnava sull'impero vasto e potente, quasi all'apice del suo splendore; la trama lì è ambientata ed è secondaria, interessante ma secondaria, come capita a tutte le trame in cui le emozioni dei particolari prendono alla gola e soffocano il vasto disegno che sottende a tutta la storia. Ho sentito emozioni, durante la lettura, che provo sempre più raramente, ovvero la gioia di leggere e di divorare le pagine per sapere come procederà il romanzo, quali altre piccole gioie saprà rievocare nel mio animo, quali altri particolari riuscirà a far riemergere a chi, come me, ha ricordi della vita vissuta in Roma imperiale.
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