Visto il proliferare incontrollato di serie poliziesche tutte uguali (a esclusione della notevole The Shield), serie tv avulse dal contesto come le suddette Heroes e Jericho sono comparse sugli schermi televisivi con una certa titubanza, riscuotendo a sorpresa un buon successo di pubblico, portando la NBC (per Heroes) e la CBS (per Jericho) ad aumentare il numero di episodi rispetto a quelli finora prodotti.

Alla messa in onda dei pilot i due telefilm avevano conquistato un audience intorno ai 9.5 punti, assentandosi poi sul 7,5 con gli episodi successivi, un risultato non indifferente in un ambiente dove la competizione è decisamente letale e fa vittime ad ogni inizio di stagione.

A questo punto diventa necessario conoscere meglio i due titoli, sperando di avere presto anche noi la possibilità di scoprirle.

Heroes

Il telefilm è afflitto una dicotomia che, almeno dalle prime battute, sembra alquanto difficile poter scindere. La serie ha sicuramente la grande ambizione di voler superare il confine del classico formato televisivo e si presenta immerso in una fotografia e uno stile di ripresa molto cinematografico, mentre la trama è avvolta in una atmosfera sospesa e irreale, dove i silenzi e le lunghe inquadrature descrittive hanno più peso della narrazione stessa.

Ma qui si vede anche il suo primo limite: più ci si inoltra nel mondo di Heroes, più una similitudine si fa strada nella nostra mente, concretizzandosi nella frase “sembra i 4400 girati come Lost", al punto che ci si aspetta di sentire le onde del mare.

Come nella serie pluripremiata e ancora in cima alle classifiche, scopriamo personaggi con un background oscuro e che devono capire cosa sta succedendo loro, come in Lost abbiamo dei sottili collegamenti tra i personaggi, persino tramite la presenza di un fumetto (dove per fortuna non ci sono orsi).

In Heroes alcuni personaggi sanno a priori di avere sviluppato una sorta di superpoteri, altri pensano di averli e questo condiziona su vari livelli le loro vite. Ma diventa difficile non scadere nello humor involontario quando uno dei personaggi (un giapponese che parla solo koreano, scusate volevo dire giapponese) esclama “ho alterato il continuum spazio/tempo!”, solo perchè si è fermata la lancetta di un orologio, che poi torna indietro di uno scatto. Mentre la vita tutto intorno procede come sempre. A lui si aggiunge un ragazzo nei cui sogni a volte vola a volte cade. Da qui decide che forse sa volare ed è il fratello che esprime in breve il nostro stesso pensiero: buttati giù dal ponte e vedi cosa succede.

Nel pilot non succede praticamente nulla e le scene migliori sono, per una volta, a vantaggio dei due personaggi femminili: la giovane cheerleader ci regala una sequenza con il tritarifiuti e più avanti con un quarterback che difficilmente dimenticheremo, mentre la bellissima Ali Larter ha un doppio non meglio identificato che la guarda dagli specchi e che sa essere molto letale quando lei è in pericolo (stile Fight Club). Il come però, è un mistero da svelare negli altri episodi.

Poi, nel cosiddetto cliffhanger finale le cui intenzioni sono di farci tornare a vedere il telefilm, salta fuori un pittore che dipinge il futuro. Ovviamente un futuro di morte e distruzione. E sue sono le parole che chiudono il pilot. Dopo il suo tentato suicidio, vediamo il suo ultimo dipinto, che ovviamente rappresenta una New York nel mezzo di una catastrofe e lo sentiamo dire in un soffio “dobbiamo evitarlo”.

Al che nasce spontanea la domanda: che cosa, i clichè narrativi?

Si deve arrivare con pazienza al secondo episodio per vedere un minimo di evoluzione della storia, nonché un nuovo personaggio che non aveva trovato spazio nel pilot. Anche qui, la parte più affascinante e letale è quella di Ali Larter, che è davvero una buona idea non far mai arrabbiare, mentre il giapponese che si teletrasporta scopre che, quando ha parlato di alterare il continuum, non sapeva che poteva farlo non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Però anche questo lo abbiamo già visto nei suddetti 4400. E il tutto sembra un tantino un fumetto per teenager.

Skeet ulrich, il protagonista di Jericho
Skeet ulrich, il protagonista di Jericho

Jericho

Più diretto e meno incline alla sospensione poetica ingiustificata, Jericho ha il formato più classico ma anche più funzionale di un buon telefilm. La fotografia è buona ma non pomposa e la regia preferisce stare dietro ai personaggi ed alla storia che perdersi in dettagli marginali e voli empirici. Tutto succede nei primi dieci minuti: il protagonista che torna a casa dopo (forse) cinque anni nei marines, l’incontro con tutti i rapporti irrisolti lasciati nel paesino, la radio che parla di una situazione politica incandescente ma che sembra molto lontana dalla pianure che circondano il paese, una veloce presentazioni dei personaggi e subito dopo, all’orizzonte, il fungo atomico che cambia tutto. Jericho prima piomba inevitabilmente nel panico, poi nel buio quando la corrente sparisce.

Sarà perché questo pilot dura la metà di quello degli avversari (anche se dipende da quale pilot si è visto, Heroes ne ha due diversi), ma la sequenza degli eventi è più veloce e ci fa sentire una familiare sensazione di panico. Anche perché, non casualmente, Jericho sembra la versione seriale dell’ormai classico The day after, che qui viene ampliato e immerso nello spaesamento di chi non sa bene cosa è successo ma sa che il futuro ha subito una brusca interruzione.

Resta il dubbio su quanto lontano possa arrivare la serie con presupposti del genere, senza diventare la versione tv di Mad Max.

In comune i due telefilm hanno una aggiunta che sembra tanto inevitabile quanto ormai risaputa: un killer misterioso che agisce nell’ombra (in Heroes è alquanto grandguignolesco), casomai la storia non fosse sufficientemente tesa per conto suo.

E ovviamente, la straclassica situazione della catatastrofe imminente o già avvenuta, per la quale non regge più la scusa della sindrome del 9/11, quanto il più prosaico desiderio del pubblico di godere delle disgrazie altrui.

Negli Usa le due serie sono all’inizio del loro cammino e forse c’è ancora spazio per correggere alcuni errori di rotta, ma di sicuro hanno fatto meglio di altre appena nate ma meno fortunate, vedi Kidnapped, storia di un rapimento che nasconde il solito misterioso complotto (e che concettualmente ricorda Prison Break, ma senza la prigione), che però non ha colpito molto l’immaginario del pubblico, vedendosi spostata al sabato sera, fascia definita negli Usa “il cimitero della programmazione”. Più inattesa l’audience al momento deludente per due serie molto interessanti e diverse dal solito: Studio 60 dal creatore di West Wing, con un cast di tutto rispetto tra cui la splendida Amanda Peet e Matthew Perry (Chandler della mitica Friends), storia molto sofisiticata di una coppia di autori televisivi poco ortodossi chiamati a salvare uno spettacolo televisivo in crisi; Six Degrees, creato da JJ Abrams, in cui 6 persone che vivono a New York, con le loro vite e problemi, sono collegate tra loro senza nemmeno saperlo. Due serie davvero originali che evidentemente si sono scontrate con i più basici desideri del pubblico, ovvero omicidi e misteri sovrannaturali.