L’ultimo Ace Combat è il miglior sparatutto aereo per Playstation 2. Ma è anche il miglior Ace Combat?

Con Ace Combat Zero: The Belkan War, Namco prova a tirare le somme della trilogia da Top Gun per la console Sony attraverso un capitolo risolutivo, in forma di prologo.

Un’operazione che consegna ai fan le tessere rimanenti del mosaico, in attesa che gli autori trovino il modo di ripensare la serie, magari su Playstation 3.

Zero non è un titolo di rottura, quanto piuttosto un titolo di sintesi. Nonostante ciò, gli spunti, gli inediti non mancano. In questa versione, tornano raffinati anche molti dei particolari che hanno fatto di Ace Combat lo sparatutto aereo per console più famoso sulla piazza.

La grafica supera con tecnica straordinaria quelli che si potrebbero credere i limiti della tecnologia. Permangono difetti storici quando si scende a bassa quota (il terreno perde inevitabilmente definizione), ma lo spettacolo offerto è fotorealistico come mai prima d’ora, dalla modellazione degli aerei alla qualità degli effetti speciali e atmosferici, al panorama. Chi ha giocato al precedente Squadron Leader, Ace Combat 5 secondo la numerazione ufficiale, potrebbe non cogliere subito il cambiamento. L’insieme dei dettagli restituisce però col tempo la realtà del salto visivo.

La grafica non è l’unico ambito su cui ha lavorato Project Aces, il team Namco responsabile della serie. Decisivi passi avanti si sono compiuti anche nell’intelligenza artificiale, sia dei compagni di ala che dei nemici. Quella dei nemici si concretizza nella novità più evidente di Ace Combat Zero: la presenza di squadroni d’élite. Ovvero gruppi di assi dell’aviazione che non si lasciano abbattere come mosche, vale a dire come le quintalate di velivoli avversari normali, ma collaborano interpretando la battaglia spesso con manovre collettive. Si coprono a vicenda, si divertono a giocare al gatto e al topo, si gettano in soccorso dei commilitoni in difficoltà. Un po’ come fa l’unico gregario del giocatore, efficace nell’eseguire le disposizioni schematiche impartitegli con la croce direzionale del pad e di guadagnarsi (e farvi guadagnare) la pagnotta a fine raid.

 

Tutte intuizioni interessanti, purtroppo non approfondite come avrebbero potuto essere.

Anche la trama si limita a reintrerpreatare l’allegoria della guerra nello stile “pacifista” che è diventato la firma di Ace Combat, nel caso di Zero però con tratti descrittivi più tenui e difficilmente capace di essere ricordata. I momenti più intensi sono riproposizioni di attimi già visti nella serie non troppo tempo fa e molte delle stesse missioni sono pagine di vecchie sceneggiature riscritte ad hoc.

Resta l’efficacia del racconto, giocato sull’immedesimazione del giocatore col protagonista (un mercenario spogliato di un’identità ben precisa, elemento centrale della sanguinosa guerra di Belka scoppiata dieci anni prima dei fatti di Ace Combat 5), che al pathos del bombardamento di comunicazioni radio durante le partite aggiunge l’originale possibilità di dare un indirizzo etico alla battaglia. In base alle proprie azioni, se si distrugge tutto indiscriminatamente oppure se ci si concentra soltanto sugli obbiettivi essenziali indicati sul radar in rosso, cambiano i nemici da affrontare, alcune pieghe della storia e il tono con cui gli altri piloti si rivolgono all’alter ego. Questo incipit di narrativa interattiva si sposa con la facoltà, in determinate circostanze, di scegliere il tipo di missione tra diverse opzioni (le categorie generali sono aria-aria, terra-aria, terra), ma segna anche la scomparsa di quella di intervenire – affermativamente o negativamente – nei dialoghi radio.

Anche gli eccezionali filmati in computer grafica del precedente episodio sono stati dimenticati, in favore di un incontro meno pregevole tra scenografie digitali e attori in carne e ossa.

 

Joypad in mano, Zero è insuperabile. Tuttavia, dopo i fasti di Squadron Leader, l’ultimo Ace Combat soffre per un taglio produttivo nel complesso più leggero, rarefatto, che non permette di assaporare per intero i suoi contributi. Ogni evoluzione proposta sembra introdotta con timidezza. Quella di un titolo di passaggio - da un’era all’altra, da una saga alla successiva - che attende, forse, tempi migliori per indagare nell’intimo, con rinnovato vigore, se stesso e il genere di cui si conferma peraltro monopolista.