Sulla plancia di una nave della Federazione non fai fatica a vedercelo. Ha il fisico giusto, l'espressione determinata, e gli occhi che guardano lontano, di quelli che capisci che vogliono arrivare là, dove nessuno è mai giunto prima. E' Fabio Sau, cagliaritano, e dove nessuno è mai giunto prima c'è arrivato sul serio. Non capita tanto di frequente, infatti, di alzarsi la mattina in un campus universitario americano del North Dakota, infilarsi una tuta progettata per andarsene a spasso per Marte, e farsi un giro sulle Badlands, così, tanto per vedere l'effetto che fa. Dentro un'uniforme rossa e nera Fabio Sau, da vero trekkie qual è, ci starebbe benissimo, insomma. Magari con il ruolo di capo ingegnere. Eppure, appena Fabio Sau comincia a parlare di sé, ti dice quello che non ti aspetti. Fabio infatti non è un tecnico, non è un ingegnere, né un fisico, né un chimico. Con una laurea conseguita all'Università di Cagliari, il suo campo di studi è la giurisprudenza, e ciò che gli ha permesso di giungere a lavorare in un ambito vicino all'area tecnico-scientifica è stato un master in discipline spaziali conseguito presso la International Space University di Strasburgo, alimentato da una grande passione innata per l'esplorazione dello spazio. Questa esperienza ha dato a Fabio non solo l'opportunità di avere un primo contatto con tutte le discipline coinvolte nell'avventura del volo umano nello spazio, in un ambiente internazionale e stimolante, ma anche di ricevere un'offerta come Graduate Research Assistant presso l'Università del North Dakota. Un'offerta, manco a dirlo, che Fabio ha accettato con grande entusiasmo e che non solo l'ha condotto nel Nord Dakota con l'obiettivo di un altro master nel campo cosidetto degli Space Studies con enfasi in diritto e politiche spaziali, ma che lo ha portato diritto dentro l'esperienza della tuta marziana. E allora è proprio da qui che vogliamo cominciare la nostra chiacchierata con lui.
Fabio, iniziamo dalla fine: parlaci subito della tuta sulla quale ai lavorato e che hai personalmente provato. Quali sono stati i principali problemi che sono stati affrontati e risolti nella realizzazione di un oggetto di questo genere?
La tuta in questione è un prototipo appositamente pensato, progettato e realizzato per un ambiente di tipi marziano, caratterizzato da bassa pressione atmosferica (solo 1-2% di quella terrestre) e polvere abrasiva. Ecco perché la nostra tuta è diversa da quelle che vediamo usare dagli astronauti in orbita nello Space Shuttle e nella Stazione Spazione Internazionale quando sono chiamati a svolgere operazioni al di fuori della stazione o della navetta. Una tuta spaziale, sia che si tratti del tipo utilizzato per brevi escursioni in orbita (7-8 ore), sia che si tratti delle tute usate durante gli sbarchi lunari negli anni '60, è una vera e propria astronave in miniatura, perfettamente separata dall'ambiente esterno e con una certa capacità di sostenere la vita in un proibitivo ambiente extraterrestre per un limitato numero di ore. Un problema comune a ogni tuta planetaria è costituito dall'usura e dal logoramento. L'ambiente extraterrestre non è ospitale e protetto come quello cui siamo abituati sul nostro pianeta: senza la protezione offerta dalla nostra atmosfera, ogni sorta di radiazioni provenienti dallo spazio profondo e altre condizioni estreme pongono seri problemi per la nostra sopravvivenza. Perciò ogni tuta spaziale deve offrire innanzitutto uno schermo contro radiazioni e fortissimi sbalzi di temperatura. La tuta ideata e sviluppata all'Università del North Dakota sotto la guida di Pablo de Leon e Gary Harris, il primo ingegnere aerospaziale, il secondo una specie di guru nel settore dei sistemi di supporto vitale, cerca di fornire una prima risposta a queste sfide.
Senza dimenticare la pressurizzazione...
Naturalmente. La tuta va pressurizzata dal momento che il nostro sangue bollirebbe senza la pressione naturale a cui siamo abituati da madre natura. Nel vuoto dello spazio o - nel nostro caso - nella tenue atmosfera di Marte, esiste il bisogno di fornire tale pressione, al fine di compensare la differenza. Solo così possiamo sopravvivere al di fuori del nostro pianeta. La pressione interna della tuta durante i test eseguiti nel parco nazionale delle Badlands è stata poco più di 2 atmosfere. Sebbene non pressurizzata fino al limite - il massimo sostenibile dalla tuta è 4.7 atmosfere -, la pressione interna è stata tale da creare qualche fastidio e affaticamento durante lo svolgimento di compiti di precisione con le dita o durante i tentativi di inchinarsi sul suolo per raccogliere oggetti. Più la pressione interna aumenta, essendo ciò necessario per la nostra sopravvivenza, più risulta difficile compiere i nostri usuali movimenti. Chiedete a ogni astronauta che ha fatto un'escursione a bordo della stazione spaziale: il dolore alle dita e agli avambracci è spesso penoso, specialmente dopo ore e ore trascorsi all'esterno in delicati compiti di manuntezione o costruzione.Dal momento che questo prototipo di tuta Marziana è stata progettata in maniera personalizzata per il sottoscritto, il prodotto finale è stato estremamente confortevole (ma solo dopo che la tuta viene pressurizzata) e grazie alle giunzioni appositamente costruite permette di muoversi agilmente su un terreno accidentato ed esplorare l'ambiente extraterrestre. Tra i test che dovuto superare c'è stato anche quello di guidare un piccolo All Terrains Vehicle... una sorta di piccola jeep elettrica capace di muoversi su ogni tipo di terreno accidentato. Un'esperienza piuttosto divertente e impegnativa allo stesso tempo.
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