Kim Ki-Duk è approdato alla regia dopo i suoi trascorsi da pittore, e la capacità di narrare per immagini si è mostrata in tutta la sua evidenza nei film che lo hanno reso amatissimo soprattutto in Europa, a partire da Bad Guy, fino al monumentale Primavera, Estate, Autunno, Inverno... E ancora Primavera e all'ultimo, pittorico Ferro3 - La casa vuota. Evidentemente mantenere sempre uno standard elevatissimo è difficile anche per chi viene ritenuto un genio del cinema, e l'ultimo lavoro del regista coreano conferma questa difficoltà.
Time racconta la storia di una coppia di amanti, See-Hee e Jim-Woo, il cui logorio degli anni passati insieme spinge lei a sfoghi di gelosia sempre più frequenti. Convinta che il suo ragazzo si sia ormai stufato di vedere sempre lo stesso viso ogni mattina, See-Hee decide di affidarsi alla chirurgia facciale per modificare i suoi connotati, scomparendo poi all'improvviso senza lasciare tracce. Jim-Woo, disperato per l'abbandono, trascorre i successivi sei mesi consumandosi nell'attesa di un improbabile ritorno, tra ubriacature solenni e approcci fallimentari con prostitute. Finché un giorno, nel bar che usa frequentare, conosce una cameriera strana e misteriosa, See-Haa, dalla quale si sente subito attratto. Sull'isola-museo popolata da sculture a sfondo erotico, la stessa in cui Jim-Woo e See-Hee si erano conosciuti e amati, scatta l'amore anche con la nuova ragazza, che si scopre per essere quello che lo spettatore ha sospettato fin dal primo momento in cui apparsa, cioé proprio See-Hee con il suo nuovo volto. La rivelazione sconvolge le vite di entrambi i giovani, impreparati ad affrontare la nuova situazione, cosa che spinge Jim-Woo a rivolgersi allo stesso chirurgo plastico della fidanzata. E' quindi la volta di See-Hee trascorrere sei mesi nella più cupa disperazione, cercando in ogni volto le nuove fattezze del suo amato, il quale la segue e la osserva da lontano. Quando finalmente lo troverà, un incidente stradale glielo strapperà via per sempre, distruggendo proprio quel viso che lei non potrà più scoprire. Nella solitudine della sconfitta, See-Hee non può far altro che tentare di cancellare sé stessa, cambiando ancora il proprio volto nella speranza di cambiare il destino.
Time, con ovvia deduzione, è un film che parla del tempo, del suo scorrere inesorabile al quale ogni altro avvenimento si piega. Così l’amore, la bellezza e la morte, un trittico che spesso attraversa l’arte dell’estremo oriente, diventano fatti momentanei che si ripetono ossessivamente uguali a sé stessi, come una canzone viene ripetuta da un juke-box difettoso. Purtroppo il discorso che il film tenta di fare ne esce scontato e frammentato, con una struttura circolare che risulta intuibile fin dai primi quindici minuti (la parte migliore del film, peraltro) e un effetto complessivamente surreale non si capisce quanto involontario e quanto invece cercato. La stessa cosa si può dire dei dialoghi: nei precedenti lavori di Kim Ki-Duk il silenzio si pone maestoso, scorre attraverso i fotogrammi scandendo ogni istante di un preciso significato. In Time, invece, le parole arrivano quasi a prendere il sopravvento ma in maniera disordinata, dando l’impressione di una scarsa propensione nella gestione di un testo scritto. Così anche i dialoghi oscillano tra il banale e il surreale, con un effetto a volte di comicità involontaria che stride con l’asettico biancore della fotografia, volutamente cruda e intrisa di realismo quanto basta per non trasmettere nessuna emozione particolare (il che per un regista che proviene dal mondo della pittura non è proprio un gran risultato).
I luoghi che fanno da epicentro del film, un bar in cui succede praticamente di tutto e l’isola-museo di cui sopra, diventano l’essenza stessa della storia: un ruotare di vicende che si intrecciano in modo apparentemente caotico. Diventa difficile seguire le motivazioni dei personaggi, e il tentativo di dare un ultimo messaggio (cambiare la parte esteriore di noi stessi non cambia ciò che siamo e ciò che soffriamo, e soprattutto non impedisce al tempo di compiere il suo sporco lavoro), risolleva solo un po’ le sorti della pellicola, insieme alle buone prove degli attori, principalmente dell’interprete femminile Sung Hyun-Ha, e a una regia complessivamente pulita e di mestiere.
Time è sicuramente un’opera minore, e lascia in bocca un fastidioso senso di incompiutezza, come se Kim Ki-Duk avesse tentato la grande prova d’autore minimalista, mancando parzialmente il bersaglio. Per lui un deciso passo indietro. Parecchio deciso, e parecchio indietro.
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