Il 13 giugno scorso, Damon Lindelof, sceneggiatore di Lost, ha tenuto una lezione di cinema alla Casa del Cinema di Roma. Un incontro durato circa due ore, condotto da Marco Spagnoli, giornalista e critico cinematografico, nonché collaboratore storico di Delos e Fantascienza.com.
Queste alcune delle domande tratte dalla prima parte dell’incontro in cui Spagnoli ha intervistato davanti ad un folto pubblico lo sceneggiatore americano.
Come le è venuta l’idea per Lost?
Mi era stato proposta dal produttore di lavorare al fianco di JJ Abrams che – in quel momento – stava ancora lavorando ad Alias. Pensavo all’idea di un gruppo di persone tutte molto misteriose. Se metà della puntata avesse riguardato la loro vita sull’isola e un’altra metà la loro vita prima dell’isola, “Forse”, mi dicevo “saremo in grado di arrivare fino a una decina di episodi. Magari anche undici.” Quando ho incontrato JJ Abrams per la prima volta, lui mi ha preceduto indicandomi la maggior parte delle cose cui avevo pensato anche io. Sin dal primo momento JJ ha apprezzato molto il desiderio di usare dei flashback e la scena iniziale del pilota quando ci concentriamo su un uomo e non sul disastro aereo. Questo per dire al pubblico che Lost riguarda le persone sull’isola e che ogni settimana seguiremo l’azione attraverso gli occhi di un unico personaggio. Undici settimane dopo quell’incontro io e JJ abbiamo consegnato il pilot di due ore, dopo avere scelto il cast e portato l’aereo alle Hawaii e girato l’intero episodio…
Suo padre era un grande appassionato di Orson Welles: c’è qualche punto di contatto tra il suo lavoro e quello di questo grande regista e cineasta?
I suoi film preferiti erano Quarto potere e L’infernale Quinlan. Mio padre adorava Orson Welles perché era una specie di P.T. Barnum: uno showman, ma anche un genio. Era affascinato dall’idea wellesiana dlla Guerra dei mondi in cui il regista aveva deliberatamente confuso la linea tra la realtà e la finzione. Come in Quarto Potere in cui Welles parlava di Hearst, ma – al tempo stesso – inventava il mondo di Kane. Nel mio lavoro a me piace mescolare finzione e realtà come faceva Welles che non era solo un grande filmaker, ma anche un uomo dalla vita affascinante. Di fatto con tutte le persone che lavorano in Lost, spesso, ci ritroviamo a parlare del lavoro di Welles, ma anche di Preston Sturgess, artisti con cui sentiamo un particolare legame. Io, per esempio, ho studiato cinema all’Università di New York e ho assorbito il lavoro di questi registi. La maggior parte del tempo mi trovo un po’ a ‘rubare’ da questi grandi. E lo faccio con orgoglio, perché se devi rubare da qualcuno è bene farlo sempre dai migliori combinando elementi diversi tra loro.
Non è, forse, proprio della sua generazione di registi e sceneggiatori andare un po’ oltre le limitazioni dei generi?
Spesso le persone avvertono la necessità di definire in maniera chiara quello cui stanno lavorando. Soprattutto in televisione sentiamo spesso qualcuno che dice: “Questa è una serie di ‘medici’, questa ‘di poliziotti’. Noi abbiamo fatto uno sforzo per fare di Lost qualcosa che sia un po’ tutto, qualcosa che non possiamo spiegare allo spettatore, che, però, dovrà vederlo per capire quello che gli stiamo proponendo. Noi chiediamo al nostro pubblico di essere paziente. Lost non è una serie dove alla fine di ogni singolo episodio si trova una spiegazione per tutto. Ci sarà, ma non è ancora arrivato il momento. Non è come C.S.I. che inizia sempre con un cadavere e – alla fine – sapremo tutto riguardo quel corpo. Puoi perdere qualche episodio e quando tornerai a vederlo, saprai sempre tutto. In Lost le cose sono diverse. E’ una serie che va affrontata come un libro e letta capitolo dopo capitolo. Non si può ‘saltare da una pagina all’altra’, perché – altrimenti – non capisci nulla. Io e JJ abbiamo cercato di replicare il modello narrativo dei fumetti con i quali siamo cresciuti da ragazzini.
Un modo nuovo per affrontare questo tipo di narrazione…
Perché il pubblico è diventato molto intelligente. Da un lato vogliamo evitare – come succede per C.S.I. - che a metà della puntata lo spettatore abbia già capito tutto. Dall’altro è un po’ come tornare a una forma di narrazione arcaica in cui – gruppi di persone sedute intorno al fuoco – raccontavano una storia. In un certo senso per Lost succede la stessa cosa: questa serie ha dato vita a un’enorme community di fan che vedono insieme le puntate e ne discutono tra loro o con gli altri amici anche su Internet. Questo è il nostro modo per dare credito agli spettatori. Del resto anche se noi abbiamo ben chiara la direzione futura del telefilm, alcune delle idee che abbiamo avuto dal pubblico sono semplicemente geniali e che io stesso non avrei mai potuto immaginare.
In fase di sceneggiatura come trova l’equilibrio tra i vari elementi presenti nella storia?
Come scrittore credo che la qualità più importante che uno debba avere è uscire dal ruolo di autore proprio materiale e diventare parte del pubblico. Spesso mi domando che cosa non funzioni nelle pagine che ho davanti agli occhi. Dedico gran parte del mio lavoro a ripulire quello che mi sembra sbagliato o eccessivo. Per me una serie televisiva come Lost può essere considerata come il lavoro di un’orchestra: non puoi avere un unico strumento che suona o che domini tutti gli altri per tutto il tempo. Dopo la sceneggiatura, regia, montaggio, recitazione e musica mettono in evidenza alcuni elementi portando la narrazione a raggiungere quel punto di equilibrio che lei notava. Del resto la struttura narrativa di Lost è un po’ come quella delle Iene di Tarantino. Quando arriverete alla fine scoprirete che l’inizio della serie è in realtà la sua metà. So che questo è un po’ frustrante. E’ un po’ come leggere un libro con qualcuno che ogni settimana ti manda solo un capitolo. Ma, ehi, questa è la televisione!
Qual è stato la serie che, come spettatore, l’ha frustrata di più?
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