Quando le radici: Angelo De Ceglie
di Vittorio Catani
Su Angelo De Ceglie (1956-1985), autore prematuramente scomparso, autentica “promessa” della fantascienza italiana, personalmente posso dire poco, avendolo incontrato, scambiando alcune frasi, solo un paio di volte – di sfuggita – in vecchie convention a metà anni Ottanta....
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1.
Brainhope e Peenemunde giunsero a Mondo dello Specchio dopo un ultimo balzo nel vuoto di duecento cinquanta milioni di oreluce. Scesero veleggiando in caduta libera, rallentati appena dai razzi frenanti, seguendo una parabola allungata che partiva dal fianco della nave ruota, in orbita a duecentocinquanta miglia dalla superficie del pianeta, sul lato in ombra.Sbagliarono leggermente i calcoli. Atterrarono a qualche chilometro dal punto esatto dove si ergevano le cupole e le torri del porto. Avevano il deserto tutto intorno.Fin da quando erano sbucati nella zona illuminata, il metallo del modulo era diventato rovente, in pochi istanti. Con uno stridio, le pompe dei refrigeratori si erano messe in funzione. Anche ora il loro sibilo continuava lamentoso.Brainhope uscì nel riverbero, gli occhi coperti da lenti fortemente scurite. Aspirò l’aria torrida a pieni polmoni.— Mi sento in vena di raccontare storielle — disse a Peenemunde, apparso dietro di lui.— Oh, è normale — disse l’accompagnatore — non ci faccia caso. L’atmosfera di Mondo dello Specchio contiene una percentuale di ossigeno più alta che non sulla Terra.Brainhope si guardò intorno. La distesa liquida, color argento, si estendeva in ogni direzione. Il suolo sabbioso sembrava ribollire, l’aria tremolava e danzava al calore. E mezzogiorno era ancora lontano.I polmoni facevano fatica. Toccandosi la fronte, Brainhope la trovò madida di sudore.— Dovrà abituarsi a questo, almeno se è veramente deciso — disse Peenemunde. Sembrava risentire meno dello sforzo; come del resto era ovvio: Peenemunde era già stato su quel pianeta dozzine di volte.Brainhope annuì. Posò una mano guantata sul corrimano, cautamente. La ritrasse subito. Poi, scese la scaletta senza più toccarlo. La sabbia non sembrava dissimile da quella di tanti altri deserti, a parte il colore. Lo stesso tocco bollente, la stessa inconsistenza vetrosa. Brainhope dovette pensarci ancora, per convincersi che c’era una differenza. Il calore della sabbia, lì, era attutito in gran parte dalle suole termiche della tuta. Altrimenti…— Sta arrivando il nostro taxi — disse Peenemunde, asciugandosi la fronte con un fazzoletto.Brainhope guardò nella direzione che l’uomo gli indicava. Dalla sommità di una duna sbucava un cingolato sferragliante. Il motore del veicolo tossiva e sputacchiava, arrancando sulla salita.Brainhope cercò di figurarsi mentalmente la scena, e non poté fare a meno di pensare che in quel momento loro due dovevano costituire un’immagine spettrale per chi manovrava il cingolato, ravvolti così com’erano nei bozzoli abbaglianti delle tute molecolari bianche, gli occhi spaventosamente neri, fermi ai piedi di un ragno metallico sullo sfondo argenteo del deserto.Il veicolo si avvicinò, giunse nel cono d’ombra del modulo d’atterraggio, si fermò ansando. Il cupolino si sollevò. C’era un solo occupante, umano. Sopra la tuta portava gli emblemi della Difesa. Scese dal Paguro.— Salve, capitano Lark — disse Peenemunde porgendogli dei fogli. — Questi sono i nostri documenti.L’uomo li guardò appena. Si volse verso Brainhope. — Lei è un altro di quelli, eh? — disse. — Un altro matto. Beh, ormai è qui. — Tese la mano: — Benvenuto a Mondo dello Specchio.Brainhope ebbe una strana sensazione, come se Lark cercasse di trasmettergli qualcosa di indefinibile, qualcosa in relazione con le dune incandescenti e il soffio arido del deserto. Fu distolto dalla voce secca del capitano:
— Vogliamo andare?
Il portello del loro modulo era ancora aperto. Brainhope guardò i sedili vuoti del Paguro, interrogativamente.
— Non si preoccupi — disse Peenemunde. Brainhope lo seguì, salì al proprio posto. Il cupolino scuro si richiuse sulle loro teste, le ruote dentate si avviarono. Il ragno d’acciaio si confuse con il deserto, alle loro spalle.
— Così, quella è la Piramide — disse Brainhope, indicando il triangolo lontano calcinato dal sole, attraverso la finestra schermata della Torre, il cui vetro ne avvicinava i contorni.
Lui e Peenemunde erano saliti fin lì all’ultimo piano della Torre Est di Sand Town solo per vederla.
Brainhope aveva voluto atterrare di giorno proprio per poterla osservare subito. Per Peenemunde si trattava ormai di un’immagine abituale. La Torre era di proprietà della Compagnia per la quale Peenemunde lavorava. Accoglieva tutti i visitatori da Sol e da un’altra dozzina di sistemi. Il porto spaziale era poco discosto, mentre le cupole e i cubi della città turistica si stendevano ai loro piedi.
— Da qui non sembra nemmeno trasparente — continuò Brainhope.
— Non si è ancora capito se lo sia veramente. A guardarla, appare come un perfetto cristallo prismatico. Pure, non rispetta i normali fenomeni di rifrazione. I raggi ottici, le luci, l’attraversano e tirano dritto. Una volta alcuni scienziati provarono a dirigerle contro un laser, restando naturalmente al di fuori del campo di forze e sparando in direzione della cima. Non ha subito alcuna deviazione.
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