Qualcosa entrò dalla porta e io sobbalzai, pensando che fosse scoppiata la guerra.
Invece era solo un robot, ma sibilava e sferragliava in maniera così assurda che mi chiesi che cosa ci fosse di sbagliato in lui. Il Conte ordinò a quella cosa orribile di allontanarsi dal bancone del suo bar, e quando il robot si girò, vidi quello che sembrava un comignolo spuntargli dalla parte superiore della spalla. Nell’aria si avvertiva distintamente l’odore di fumo.
– Quel robot va a carbone! – esclamai.
– Va e basta – ribatté il Conte, versando un paio di drink. – È un esempio perfetto di ciò che c’è di sbagliato nell’economia freiburiana dettata dalle graziose ordinanze di Villelm l’Incompetente. Non vedrai nessun robot del genere, nella capitale!
– Mi auguro proprio di no – boccheggiai io, strizzando gli occhi negli sbuffi di vapore che sfuggivano dal robot e osservando le macchie di ruggine e polvere di carbone che gli decoravano le piastre. – Del resto, sono stato lontano a lungo... le cose cambiano.
– Non abbastanza in fretta! E con me, non fare il saggio che viene dalle stelle, Diebstall. Sono stato a Misteldross e ho visto come vivete voi zoticoni. Non avete neanche un robot... il che è ancora peggio di questi – e tirò un calcio rabbioso a un altro robot, che barcollò all’indietro mentre alcune valvole si aprivano rumorosamente per spingere il vapore nei pistoni delle gambe e cercare di tenerlo in piedi. – Sono trascorsi duecento anni dopo Grundlovsday, da quando siamo entrati nella Lega, a farci mungere e pacificare da loro. Per che cosa, poi? Per procurare lussi sfrenati al Re di Freiburbad. Intanto, là fuori mandiamo misere spedizioni composte da qualche cervello di robot e da una manciata di circuiti di controllo. Dobbiamo costruirci da soli il resto di questi mostri sgangherati. E da quel possente albero maestro da cui tu provieni, si pensa che i robot siano un ingranaggio inutile su una barca a remi.
« Guarda quello là – gridò poi. – La pressione è scesa a ottanta libbre! Stai certo che la prossima cosa che farà quella dannata macchina sarà crollare a faccia in giù e bruciare tutto quanto. Ridai pressione, idiota... ridai pressione!
Un paio di relè si chiusero all’interno di qualche congegno, e il robot sferragliò e depose il vassoio di bicchieri che reggeva in mano. Io buttai giù un lungo sorso del mio drink e mi godetti la scena.
Mentre rotolava verso la caldaia – in maniera un po’ più tranquilla, adesso, devo ammetterlo – aprì uno sportello all’altezza dello stomaco, e le fiamme ne eruttarono fuori. Usando la paletta per il carbone raccolse da un secchio un bel po’ di antracite e se la ficcò dentro, poi richiuse di scatto lo sportello. Un ricco fumo nero ribollì dal suo comignolo. Be’, almeno era addomesticato e non si era scrollato la griglia sul pavimento, imbrattando tutto.
– Fuori, maledizione, fuori! – imprecò il Conte, gridando e tossendo allo stesso tempo. Il fumo era abbastanza denso. Io mi versai un altro drink e in quel momento decisi che Rdenrundt cominciava a piacermi.
Questi di cui avete letto sono dei robot abbastanza insoliti che ho usato nel mio romanzo Il ratto di acciaio inossidabile. Per fortuna rappresentano un caso unico, fra i robot tipici della fantascienza.
Quando la maggior parte della gente sente la parola robot, si crea istintivamente l’immagine mentale di un uomo meccanico, tutto giunture cigolanti e occhi splendenti. Questo, in realtà, non è quello che Karel Capek aveva in mente quando, nel 1923, coniò per la prima volta il termine robot nel dramma teatrale R.U.R.
I suoi robot – Robot Universali di Rossum – erano fatti di carne e sangue, sebbene costruiti artificialmente, e identici alle persone normali, a parte la mancanza assoluta di emozioni. L’idea che una creatura artificiale costruita dall’uomo non potesse portare nulla di buono, arrivò nel 1935 con il romanzo The Avatar di C.C. Campbell, nel quale l’uomo meccanico perfetto diventa il dittatore del mondo e non resta che distruggerlo.
Il nuovo termine robot colmò un vuoto di cui si sentiva bisogno, e fu sfruttato con gratitudine dagli scrittori di fantascienza delle prime riviste pulp; ben presto, però, mutò di significato, per descrivere un uomo meccanico con la pelle d’acciaio: macchine obbedienti che seguivano i sentieri della giustizia.
L’Uomo a Vapore di Frank Reade combatteva gli indiani per conto dei bravi ragazzi bianchi, e il robot di Eando Binder, costruito per la pace e per provare il suo valore all’umanità, era abbastanza intelligente da decidere di schierarsi contro i nazisti, in Adam Link Fights a War. Capitan Futuro di Edmund Hamilton poteva contare sul suo fedele robot Krag, per ricevere soccorso in qualsiasi momento, così come sull’altrettanto fedele, seppure non troppo bello, androide Lothar.
Un tocco d’ordine nel mondo dei robot arrivò nel 1940, con i racconti Robbie e Bugiardo! di Isaac Asimov. Gli uomini meccanici cominciarono a muoversi sferragliando e irradiando sicurezza, grazie alle leggi della robotica impresse nei loro cervelli positronici:
1. Un robot non può recare danno a un essere umano o, attraverso il suo mancato intervento, permettere che un essere umano riceva danno.
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non siano in contrasto con la prima legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questo non sia in contrasto con la prima o con la seconda legge.
Una volta eliminata la minaccia robotica, le infinite possibilità di relazione fra i robot e gli esseri umani potevano essere finalmente esplorate. Clifford Simak, nella sua serie City, descrive la razza umana che si evolve e lascia la Terra ai robot. Nel romanzo Le mani incrociate di Jack Williamson (1947), si scopre un pericolo insito nel controllo dei robot, ma niente di particolarmente drammatico. Per prevenire possibili attacchi dei robot agli esseri umani, alle creature meccaniche vengono precluse tutte le conoscenze della razza umana.
Dopo tanta benevolenza robotica, è stato un piacere leggere in Furiosamente Farhenheit di Alfred Bester le gesta di un robot sdegnosamente alienato.
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