L’innesto, un disco di lega nero delle dimensioni all’incirca di un cracker di soia, conteneva una personalità predisposta per intrattenere il suo ospite, divertirlo e conversare con lui; fu innestato proprio sotto la pelle dietro l’orecchio, e controllava i livelli emozionali, stimolando l’attività appropriata tramite cariche elettriche in grado di elargire sia piacere che dolore. A sentire Bill, l’impianto si faceva chiamare Mister C, ed era – sempre secondo Bill – il suo migliore amico, malgrado il fatto che gli facesse male quando era lento a obbedire ai suoi comandi. Io capivo sempre quando Mister C stava parlando: la faccia di Bill si svuotava, e i suoi occhi dardeggiavano in giro come se tentassero di vedere chi fosse a parlare, e le sue mani si aprivano e chiudevano. Non era una cosa piacevole a vedersi. Eppure supponevo che Mister C fosse per Bill, malgrado tutto, quanto di più vicino a un amico potesse avere. Di certo era molto premuroso e non era mai troppo occupato per fare due chiacchiere; e, cosa più importante, lo metteva in grado di compiere gli umili servizi che gli venivano assegnati: mansioni da custode, da fattorino e, una volta che ebbe raggiunto l’età di quindici anni, il lavoro che infine gli fece guadagnare il nome di Bill il ritardato. Ma nulla di tutto questo mitigò l’avversione nei suoi confronti che predominava in tutta la stazione, un sentimento che si fece più pronunciato in seguito all’incidente con Braulio. Due dei figli di Braulio vennero uccisi da uno squadrone della morte che li aveva scambiati per membri di una gang, e questa tragedia fece sì che le persone cominciassero a parlare dell’ingiustizia che permetteva a Bill di condurre un’esistenza così privilegiata mentre altri più degni dovevano essere condannati all’inferno sulla Terra. Poco tempo dopo, la questione della condizione di Bill venne di nuovo sollevata, e la cosa fu montata da Menckyn Samuelson, uno dei capi spirituali di Solitaire e – per mia vergogna, poiché era un essere spregevole – un londinese come me. Samuelson era emigrato alla stazione come fisico delle basse temperature e da allora si era insinuato in una posizione d’importanza nell’amministrazione. Non capivo cosa ci guadagnasse nel perseguitare Bill – aveva, immaginai, un progetto politico nascosto – ma tirava fuori quel discorso in ogni occasione e con chiunque avesse voglia di starlo a sentire, e riusciva a fomentare un atteggiamento fortemente negativo nei riguardi di Bill. L’opinione pubblica finì per trovarsi quasi egualmente divisa tra la scelta di giustiziarlo, ufficialmente o meno, o di rispedirlo in una clinica sulla Terra, il che – come tutti sapevano – era soltanto la prima opzione messa in una forma più lenta e costosa. (…)

Al tempo della mia storia, Bill aveva trentadue anni: era un tipo dinoccolato, trascurato, con un pessimo odore e i segni di una calvizie incipiente, con una faccia stupida tipo luna piena i cui tratti – occhi azzurri e scialbi, bocca incurvata come l’arco di Cupido e naso camuso – erano troppo piccoli rispetto all’insieme, e ne lasciavano vuota una larga parte. Aveva sempre le mani sporche e la tuta d’ordinanza della stazione cosparsa di macchie. Raramente girava senza una piccola borsa di tela nella quale portava, tra l’altro, un tesoro nascosto di caramelle e cristalli pornografici in RV. Era la sua predilezione per le caramelle e la pornografia che ci metteva a contatto di frequente. La donna con cui vivevo, Arlie Quires, gestiva l’ufficio approvvigionamento al quale Bill doveva recarsi per rifornire le sue scorte e dove occasionalmente, quando i miei doveri alla sezione di Sicurezza me lo consentivano, davo una mano al bancone. Bill preferiva che fossi io a servirlo: capite, era intimidito da chiunque incontrasse, ma soprattutto dalle ragazze carine. E Arlie, bruna, flessuosa e dall’aria sveglia, non solo era carina, ma aveva una lingua tagliente che lo metteva ancora di più in difficoltà. (…)