Dopo Joyce, quale futuro per il romanzo?

 Un problema che si pone chiaramente al centro della sua scrittura fin dall’esordio è proprio quello del rapporto con la tradizione, attraverso il confronto con il modernismo di T.S. Eliot e James Joyce. I primi tentativi letterari di Pynchon sono di poco successivi al periodo della letteratura beat, ma alquanto lontani dalle tematiche e dalle scelte stilistiche comuni a larga parte del movimento e che fanno di William S. Burroughs il profeta e l’oracolo dei beatnik. Rispetto a Jack Kerouac, Allen Ginsberg e soci, la riflessione su tecniche e forme del romanzo si fa con Pynchon più matura e sistematica: il testo comincia a interrogare se stesso sulla necessità di trovare nuovi modelli, che sappiano descrivere la realtà al di fuori della pura sfera emotiva dell’autore. I postmoderni prendono le distanze dalla convinzione che un romanziere non debba pensare, innalzano anzi il romanzo alla dignità di una forma di conoscenza. Il sovraccarico di coscienza storica, l’ombra opprimente del canone che si respira in tante pagine postmoderne, esplodono con tutta la loro forza deflagrante in questa presa di consapevolezza . Di tutti gli scrittori che a partire dai tardi anni Cinquanta cominciarono a dubitare delle

convenzioni su cui si fonda il rapporto tra testo e autore, di certo a Pynchon va riconosciuto il primato dell’intuizione: il suo racconto Entropia indaga un concetto scientifico tanto ambiguo quanto affascinante utilizzando i punti di vista della termodinamica e della teoria dell’informazione, segnando con questa apertura alla fisica e alla tecnologia un’autentica svolta nella letteratura americana contemporanea, ancora statica e immobile, chiusa in ogni misura alle innovazioni scientifiche (finanche nel concetto di relativismo, che invece aveva riscosso una certa popolarità da quest’altra parte dell’oceano).Ma l’innovazione del romanzo postmoderno non si ferma in questo allontanamento dal canone. Il testo non è più qualcosa che vive dentro la percezione del suo autore, uno spettacolo che si replica poi nell’animo del lettore. Il testo subisce una metamorfosi, si contorce, si deforma, muta: si fa essere mutante, agente sul mondo esterno del lettore, qualcosa in grado di mettere in luce attraverso una fitta rete di richiami le connessioni occulte della realtà . Il citazionismo, lungi dal ridursi a mero epigonismo, esalta quindi le doti cognitive dell’autore e sottopone a un test continuo l’abilità del lettore, costretto a reimpostare senza sosta i parametri del proprio sapere, sintonizzando in continuazione la soglia tra fantasia e realtà per non perdere l’orientamento nel dedalo del testo. La scrittura di Pynchon è un organismo vivente in espansione, che si nutre di ogni aspetto della cultura popolare (il jazz, il romanzo giallo, il pulp, i tascabili di fantascienza, il fumetto, la musica, le guide turistiche, il cinema di serie B) e delle pubblicazioni scientifiche (fisica, statistica, cibernetica, elettronica, teoria dell’informazione). In questo vortice di influssi e interazioni, la fantascienza di Philip K. Dick occupa senza ombra di dubbio una posizione di primissimo piano. Altrettanto innegabile è l’influenza del sottile umorismo di un altro maestro della fantascienza poi acquistato dal mainstream, Kurt Vonnegut. Masticata, assimilata e riproposta in fusione sinestetica con tutto il resto, anche la fantascienza finisce però per assomigliare a qualcosa d’altro dopo essere passata per le mani di Pynchon: è questo livello estremo di contaminazione (non dissimile dall’operazione messa in atto trent’anni più tardi da Quentin Tarantino in campo cinematografico) che rappresenta la più marcata cifra stilistica del suo lavoro .Nell’esplorazione delle opere che segue, ho optato per un percorso a ritroso, risalendo la corrente del suo torrente letterario fino alle sorgenti, in un’ideale impresa di riscoperta delle origini.

L’Arcobaleno della Gravità: La Paranoia, la Dissoluzione e l’Equazione del Graal

Come già si è accennato, un forte legame avvicina la prosa pynchoniana al mondo scientifico. La fisica, la biologia, la chimica, la neurofisiologia, la balistica, l’elettronica e, in ultima istanza, la Tecnica e la Tecnologia (con o senza la maiuscola) assurgono ad autentiche protagoniste della scena. Allora non è un caso che dall’inchiostro alchemico di Pynchon venga fuori il miracolo: un testo come L’Arcobaleno della Gravità, con la sua minuziosa esposizione dei mille complotti in atto nella Zona del Disastro (il cuore dell’Europa nelle fasi finali della Seconda guerra mondiale), tutti elaborati con il proposito di ritagliare ai rispettivi alfieri un ruolo nel futuro del genere umano, si configura come un prototipo funzionante ma capriccioso di computer quantistico, una macchina della verità tanto infallibile quanto schizofrenica.Nelle sue pagine assistiamo a una sovrapposizione di trame che ha dell’inverosimile, quasi il libro stesso sia stato congegnato come un meccanismo a orologeria volto a sommergere di informazioni il lettore per lasciarlo di stucco di fronte all’inevitabile collasso finale: si è increduli quando, a lettura terminata, davanti al risultato della riduzione di stato realizziamo i presupposti del nostro presente. La nostra realtà, pare voglia dirci Pynchon, è nient’altro che il frutto dell’interazione delle molteplici trame occulte che fungono da ordito della storia. Niente di più, niente di meno. La nostra sorte è dunque in mano loro.Non dovrebbe destare sorpresa, allora, il fatto che la parte finale del libro sia stata intitolata alla Forza Contraria, come non dovrebbero suscitare meraviglia i numerosi scorci di futuro (un futuro che poi è diventato il nostro presente, o qualcosa di molto simile ad esso) disseminati nella Zona e ai suoi margini: come ogni studente di fisica sa bene, nel mondo delle particelle
il tempo perde quella valenza oggettiva che lo contraddistingue sulla scala macroscopica. Il mondo dell’Arcobaleno contiene già le tracce inequivocabili del nostro presente e non è escluso che un’attenta lettura delle sue pagine possa rivelare indizi utili per decifrare il futuro.I personaggi del libro sono scelti tutti in una classe di persone che Pynchon chiama, con sottile ironia e raffinata fantasia, preteriti. Consultiamo il vocabolario: preterire [vc. dotta, lat. praeterīre ‘passare oltre’] A v. tr. 1 (lett.) Omettere: non preterisco il vero (ARIOSTO). 2 (lett.) Trasgredire. B v. intr. Passare, trascorrere. E preterito assume allora l’accezione di tralasciato, omesso e allo stesso tempo di trascorso. I personaggi di Pynchon sono dunque simulacri di un tempo andato, reietti del loro stesso presente, rifiuti lasciati dagli eventi sul ciglio della strada della Storia. E quanti preteriti il lettore incrocia nelle pagine dell’Arcobaleno!