Non è questa la sede adatta, e non è comuqnue mia intenzione sviscerare completamente i dettagli della vita minuta a bordo di un ipotetico vascello stellare, però un paio di flash mi salgono spontanei. Uno di questi riguarda i materiali di consumo; carta fotografica, per esempio. Si potrebbe aver bisogno di un quantitativo abnorme di carta su cui sviluppare le fotografie; carta magari riciclabile, riutilizzabile con un colpo di spugna, più o meno quello che gli antichi facevano con le tavolette di cera su cui prendevano appunti. Come fare, allora? Il Corriere della Sera fornisce lo spunto: una carta fotografica biologica, composta da batteri trattati geneticamente con geni fluorescenti normalmente presenti in alcuni tipi di alghe. Nel dettaglio dell'articolo viene detto che "un gruppo di studiosi ha modificato il codice genetico dell’E. coli (Escherichia coli – tranquillo e innocuo abitante del nostro intestino) introducendovi il gene che determina la fluorescenza di alcune alghe. Risultato: un batterio intestinale fotosensibile e capace di produrre o meno un pigmento, in base alla maggiore o minore luminosità cui è sottoposto. Così, attraverso un particolare proiettore a raggi infrarossi, è stato possibile trasferire direttamente sulla pellicola biologica (ovvero la coltura di batteri) le immagini da riprodurre - compreso il ritratto di uno degli scienziati - e lasciare che i batteri reagiscano alla sollecitazione luminosa. Piccolo particolare: prima di potersi godere l’«istantanea batterica» è necessario attendere almeno 12 ore, tempo necessario affinché i batteri si moltiplichino e l’immagine si fissi". Quindi, colonie di batteri in grado di replicarsi all'infinito finché vita umana sarà disponibile, saranno i depositari delle nostre fotografie; mi viene anche di spingermi un po' più in là, ipotizzando nutrimenti umani mirati alla fotosensibilità, in grado d'impressionare i batteri già nella fase in cui sono ancora nell'organismo umano (o postumano) così da rendere immediate le analisi dello stato di salute degli astronauti (una sorta di lastra biologica da sottoporre, magari, a un internista). Questo, però, potrebbe essere materia di discussione in una prossima puntata di pillole dal basso futuro. In ultimo, è il caso di sollevare il problema del tempo libero da passare a bordo della nave spaziale. A molti, per esempio, piace suonare un qualche strumento; portarselo nello spazio profondo può essere però problematico, soprattutto per l'ingombro. E se dovesse rompersi, come si potrebbe sostituire? Come riportato dal sito Newscientist.com, il problema può essere risolto dal lavoro di un gruppo di studenti dell'università di Helsinki; mappando i movimenti delle mani e delle dita dei chitarristi rock, e riferendosi a taluni famosi riff, alcuni giovani studenti sono riusciti a rendere virtuale l'esecuzione di un arpeggio. In sostanza, ponendo un chitarrista di fronte a una webcam e facendogli mettere le dita su una chitarra nemmeno virtuale, ma inesistente, il sistema è in grado di performare l'esatto suono che nella realtà corrisponderebbe a quell'arpeggio.
L'algoritmo è ancora rudimentale ma passibile di notevole miglioramenti; immagino sia fattibile la possibilità di accordare in modo non standard le corde virtuali, e di applicare filtri sonori che, attualmente, sono esclusivo patrimonio dei musicisti.
Allora, che facciamo? Siamo tutti pronti a diventare postumani e a lanciarci alla conquista della fascia d'asteroidi, come suggerito venti anni fa da Bruce Sterling? La quotidianità del basso futuro, ormai, l'abbiamo resa presente...
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