Più che lo scrittore, bersaglio di questa puntata di "Sotto Spirito" è il personaggio. E' infatti difficile trovare spunto o motivi per beffeggiare Evangelisti: oltre ai suoi indubbi meriti letterari ed editoriali (superfluo sottolineare anche in questa sede le doti dell'indiscusso campione della SF italica), Valerio è persona così gentile, ammodo e affabile che ogni tentativo di colpirlo con gli strali dell'ironia risulta più difficile che sparare sulla Croce Rossa.
Nessun problema, viceversa, con il magister Eymerich, un anti-eroe oscuro, sapientemente reso odioso ed esecrabile dal suo inventore.
Il trecentesco inquisitore catalano non è solo un personaggio platealmente cattivo: è insopportabile. Ma non per la sua spietatezza, la disumanità, il disprezzo delle debolezze umane o la sublime passione per la menzogna e l'intrigo di cui si nutre (queste doti, al contrario, lo fanno grande)...
No, Eymerich risulta detestabile perché è troppo serio, perché non ride mai. E' un personaggio scandalosamente pieno di sé, così convinto del suo ruolo e della sua missione da porsi anni luce da ogni possibile autoironia. Nella sua serietà eccessiva Eymerich si atteggia, parla in modo, più che antipatico, intollerabile: basti ricordare la sua inesausta fraseologia paranoico-clericale, le sue dottissime e puntigliose citazioni latine e di letteratura teologica, le sue divagazioni politico-medieval-papali (tutti elementi che lo caratterizzano magnificamente, ma che alla fine fanno venire voglia di un liberatorio "pernacchione" napoletano). Eymerich è uno sdegnoso primo della classe, un secchione antipatico che tutti rispettano e temono ma che tutti, anche, sognerebbero di veder scivolare sulla prosaica buccia di banana per poi cadere testa in giù, con la sua candida tonaca da domenicano, in una bella pozza di melma.
Eymerich è uno di quei personaggi che da soli giustificano l'esistenza stessa della Satira: come i Gava, i Forlani, i Cirino Pomicino dei roboanti anni ottanta. Come il mitico Craxi, di cui Vincino e compari dicevano che aveva nutrito un'intera generazione di satiri, e che se non ci fosse stato avrebbero dovuto inventarlo.
Diciamolo pure: in questo pastiche cederemo a una voglia a lungo repressa, e prenderemo a torte in faccia padre Nicolas. Unica preoccupazione, che il suddetto padre schivi e le torte finiscano, anziché sul suo fiero cipiglio trecentesco, sull'ignaro viso ascetico di Evangelisti. Valerio, si sa, nutre verso Eymerich un affetto talmente profondo da virare a volte in un'autentica identificazione (non ci stupiremmo di vedere realmente su un volume Mondadori la copertina ritoccata a fianco). Il rapporto Evangelisti-Eymerich rappresenta il classico esempio di scrittore perdutamente innamorato del proprio personaggio. Più infatuato di Conan Doyle verso il suo Sherlock Holmes, più invaghito di Salgari verso Sandokan, più geloso di Fleming nei riguardi di 007, Valerio ama Eymerich al punto che, se fosse un regista, non staccherebbe mai l'inquadratura della macchina da presa dal primo piano del suo alter-ego letterario.
Per questo motivo, temiamo fortemente che, con quanta attenzione possiamo indirizzare le nostre torte, schizzi di panna montata finiranno inevitabilmente su di lui.
Con Valerio ci scusiamo in anticipo. Essere preso a modello dopo Asimov e Gibson crediamo non sia offensivo, ma dimostri anzi la grande considerazione (e simpatia) in cui viene tenuto. Confidiamo nella sua rinomata bonomia perché sorrida e non se la prenda. Se, nonostante tutto, offesa ci sarà, lo dissuadiamo comunque a scaldare i ferri di Mastro Gombau: abbiamo già pronto un biglietto Quantas di sola andata per la Tasmania.
Buona lettura.
Le verruche di Eymerich
(di Valerio Evangelisti?)
1 - Il sentiero
- Magister! Fermatevi, Magister, vi prego! Nicolas Eymerich tirò a sé le redini del robusto stallone bianco. L'animale arrestò il suo galoppo e chinò il muso a brucare l'erba sul ciglio dell'impervio sentiero. Con sguardo corrucciato l'inquisitore si volse indietro, verso i cinque cavalieri che arrancavano faticosamente alle sue spalle. Padre Gaudio Farmimal fu il primo a raggiungerlo. L'anziano domenicano, partito con Eymerich da Avignone, cavalcava secondo i fioretti di mortificazione della carne che usava autoimporsi: portava in bocca il morso del cavallo, sedeva su una sella legata al contrario col pomolo contro il fondoschiena, e si colpiva regolarmente con il frustino di cuoio intrecciato recitando, a ogni scudisciata, salmi con voce trasognante.
- Cosa c'è, padre? - chiese bruscamente Eymerich.
- I cavalli, magister. Hanno bisogno di riposo. E' dalle laudi che cavalchiamo.
L'inquisitore squadrò gelidamente il confratello. Misurò la distanza a cui l'altro si era arrestato con la lunga pertica che portava sempre con sé a tale scopo. Burberamente soddisfatto della verifica, si degnò di concedere una spiegazione.
- Non avrete dimenticato, spero, l'urgenza della nostra missione. - sibilò - Il pontefice in persona è preoccupato per gli accadimenti diabolici che sconvolgono queste sfortunate contrade... Dobbiamo raggiungere la rocca di MontPopon entro il tramonto, e impiantarvi il tribunale già da stanotte.
- Ma i cavalli non reggeranno, magister! - insistette l'anziano frate - Il baio del signor De Cocacol ha già la schiuma alla bocca... E guardate il vostro stallone. E' esausto! Non vorrete farlo stramazzare, magister.
Eymerich inarcò un sopracciglio. - Voi dimenticate le prerogative di un inquisitore generale, padre. Secondo la bolla papale protocollo num. 127 del 15/9, a un inquisitore è concesso di far stramazzare la propria cavalcatura e di proseguire comunque il proprio cammino requisendo l'animale di un altro cavaliere... La vostra giumenta, ad esempio, mi sembra ancora in forze.
L'anziano domenicano, soggiogato dalle parole di Eymerich, non trovò la forza di replicare. Toccandolo solo con la punta della pertica, l'inquisitore lo fece smontare, scese egli stesso da cavallo e, dopo aver ripulito e sterilizzato accuratamente la sella dell'altro, salì sulla seconda cavalcatura.
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