"Che ci faccio qui?" diceva Chatwin, svegliandosi la mattina nell'ennesima landa perduta, in cima all'alluce del mondo, in cui si ritrovava nei suoi rocamboleschi viaggi no-alpitur. E "che ci faccio qui?" è la domanda che non possiamo fare a meno di porci, accingendoci all'improbo compito di colpire l'immenso P.K. Dick con l'arma spuntata della satira. Perché, signori miei, diciamocelo francamente: il nostro PKD era un gigante vero, uno scrittore (scusateci, quando ci vuole ci vuole) con due palle così, un artista in grado di raggiungere, per temi trattati, intrecci, stile e visioni, vette himalayane di bravura e passione, qualcuno che sapeva veramente come lasciarti con la bocca aperta e gli occhi spalancati e fissi sui suoi sconcertanti affreschi di futuro...
Come si può pensare di beffeggiare un titano del genere, se perfino dopo la prematura scomparsa la sua reputazione e il suo seguito continuano a lievitare come un soufflé? Come si può osare una caricatura, se ormai qui in Europa e oltre oceano si fa a gara (e a pugni, a capate, a sputi in faccia) per rivendicare sedicenti eredità letterarie, per assicurarsi in ogni modo PKD come precursore e testimone di dignità artistica e di corrente?
No, questa volta è davvero troppo. Questa volta... No, un istante, cosa stiamo dicendo? Andiamo, non sia mai detto che la nostra malvagità esiti ad accettare una sfida. Navigare controcorrente ci ha sempre intrigato, ammettiamolo, e in una sinfonia polifonica di lodi sperticate, una voce beffarda (ma sempre rispettosa) sarà forse persino necessaria, e solleverà magari qualche eco interessante. Speriamolo.
Certo dovremo tentare strade nuove, innovazioni ardite, per sperare di far baluginare qualche risata dai temi oscuri e le atmosfere inquietanti di PKD. Piuttosto che trasporre, come abbiamo fatto nelle precedenti puntate di "Sotto Spirito", lo stile e i tormentoni della nostra vittima in una storia italiana, tentiamo un'operazione inversa: viriamo un italiano in Dick. Cerchiamo cioè di indovinare come il nostro PKD avrebbe potuto interpretare, impugnando la sua problematica e umbratile penna, un soggetto divertente e "leggero" come quello portato al successo da un popolare comico toscano. Scoprire il nome di tale comico (nonché dell'opera reinterpretata) è un compito che lasciamo volentieri al nostro attento pubblico.
Buona lettura.
La (sg)nacchera sul sole
di Philip K. Dick?
La morte incombeva nell'aria gelida e cupa. Nella nebbia densa che mi si stendeva dinanzi, uno straziato organismo corroso stava morendo. Rotto e schiacciato, riversava sulla strada il suo fluido vitale, che formava sull'argento putrido e fetido dell'asfalto una pozza sempre più larga e gorgogliante. Il mio motorino. Aveva resistito a sedici inverni. Ma adesso era lì, con la marmitta in pezzi e il serbatoio ridotto a un archetipo di colabrodo inconscio (in senso junghiano): neppure lui era rimasto indenne al vibrante passaggio di Lorena e delle sue compagne.
Mentre osservavo psicoticamente il disfarsi ipnagogico del telaio e del motore, ricordai il loro arrivo. E come tutto era cominciato...
La nostra cittadina, Millgate, era un archetipico paradiso rurale, abitato da placidi bipedi e serafici quattrozampe (in senso freudiano). Le facevano arco una catena di basse colline dalla vegetazione marcescente, e un bosco di larici dalle foglie simbolicamente fetide e putride.
Non vi accadeva mai nulla. Bill Konklin, lo scemo del villaggio, andava in giro per i negozi gridando "Ce l'hai il grattaevinci?" ai nevrastenici bottegai; Lucas Cartwright, il mio amico meccanico/riparatutto afflitto da un tic nevrotico-ossessivo all'orecchio destro, dedicava il suo tempo, in senso junghiano/postanalitico, a trombarsi le casalinghe represse del paese; mio fratello Ceccher, soggetto a turbe teofisico-onanistiche, dipingeva tele astratte firmandole "Dio non c'è, ma ci fa"; e io facevo il commercialista, tentando di abbozzare la dichiarazione dei redditi dei bottegai estrapolando i dati dalle loro schizoidi ricevute fiscali (quando le avevo, visto che i bottegai preferivano dare le ricevute a Bill Konklin, e a me le tessere del grattaevinci).
Uno psicotico giorno di Maggio, Lorena e le sue compagne comparvero all'orizzonte. Il loro nevrotico camper si arrestò nell'aia del nostro casale, e loro scesero a ritmo di flamenco. L'intera Millgate parve fermarsi e trattenere il fiato. Ubik, il mio pastore alsaziano affetto da manie di grandezza, corse pavlovianamente a nascondersi nel fienile.
- Les cupoles de la catedral de Siviglia! - esclamò infoiato Ceccher.
- Dos gustos are meglios de uàn! - approvò Lucas, muovendo l'orecchio a tempo di flamenco.
- Ce l'avranno il grattaevinci? - aggiunse Bill.
Lorena e le altre non li delusero, improvvisando la nevrotica danza a colpi di nacchera che le aveva rese famose (e che, affiancata dall'eterna storiella dell'indicazione stradale sbagliata, consentiva a lei e alle sue amiche di girare per il Paese senza mai dover scucire un centesimo di albergo).
Offrimmo loro ospitalità nel nostro casale, ma Lorena e le altre declinarono l'invito dopo aver visto l'aspetto patologicamente putrido e fetido delle nostre stanze da letto.
- Ola ola, vo' a dormire nell'aiola. - dissero in coro. E ci diedero la buonanotte.
Io invece non riuscivo a dormire. Psicopatologicamente. Per dirla con Klein, Lacan e tutti i post-freudiani, ce l'avevo duro come il berillio. Verso mezzanotte mi alzai, in preda a scampoli e frammenti di reazioni puramente corticali pre-junghiane, e scesi nell'aia. Lorena era sdraiata su un poncho dipinto con forme coatto-ossessivo-fobiche, e fissava il cielo putrido e fetido con aria rapita.
- Vuoi un tè freddo? - le proposi.
- Tu hai del tè freddo? - ripeté lei, stupita.
- No. - feci io - Però con la Maria Gianna che coltiviamo qui, puoi prendere per tè freddo anche il piscio dei tacchini.
- Va bene. - approvò lei - Passa questa canna.
Così ci facemmo. E parlammo. A lungo.
- E' il cellulare che ci rende paranoici, o è la paranoia che ha partorito i cellulari? - chiedeva lei.
- Non lo so, ma devo smetterla con questo pauroso scivolare tra le ombre. - ribattevo io.
- Perché passiamo la vita a odiarci, quando si può dormire fino a mezzogiorno? - proponeva lei.
- Siamo talpe cieche. - meditavo io - Strisciamo lungo la vita a tastoni, sbattendo il grugno contro gli ostacoli. Non sappiamo nulla, non vediamo nulla. Possiamo solo gridare di paura.
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