Vi siete mai chiesti come sarà considerata, da qui a cento anni, la narrativa (e la SF) contemporanea? Che giudizio profferirà l'ipotetico lettore del ventiduesimo secolo di fronte alle opere cui noi oggi rivolgiamo tanta ammirazione? Non parliamo, ovviamente, di una valutazione (più o meno condiscendente) delle estrapolazioni scientifiche, comunque destinate (salvo fortunati casi) a essere platealmente smentite dagli eventi. Parliamo invece di possibili giudizi sulla scrittura, sul linguaggio, sullo stile narrativo.
Un enorme problema di noi sciagurati pennivendoli che ci ostiniamo a scrivere fantascienza (piuttosto che dedicarci ad attività ben più intriganti e redditizie come partecipare ai telequiz o fondare partiti politici) è proprio il linguaggio: si fa presto ad ambientare una storia nell'anno 3000; quasi inevitabilmente, poi, si finisce per mettere in bocca ai personaggi parole, espressioni, concetti e tormentoni dannatamente legati ai nostri giorni. Con tutto ciò che ne consegue.
E' certo un errore. Però è possibile (forse arrampicandoci un po' sugli specchi) trovarvi un significato.
Si dice che la SF non debba arrogarsi la capacità di dipingere scenari futuri, ma si debba dedicare a tratteggiare immagini di ciò che l'uomo d'oggi pensa del futuro. In questo senso un'opera di fantascienza è un po' uno specchio a due facce: riflette sul domani; ma mostra anche, in trasparenza, pensieri e parole dell'oggi.
Tutto questo preambolo, spero abbastanza oscuro da meritarsi il pretenzioso titolo di "analisi", per spiegare perché abbiamo deciso di imitare il caro vecchio Burroughs.
Non c'è dubbio che, per i nostri canoni, i romanzoni barocchi e post-vittoriani del buon ERB siano delle ciofeche pazzesche, adatte al massimo per una cura massiccia contro la stitichezza. Il suo frasario da gentiluomo del New England pre-industriale, le sue descrizioni d'ambiente da bordello bizantino, il suo instancabile propinarci pettoruti guerrieri WASP e svenevoli virginali principesse, suscitano nell'odierno lettore, dopo qualche riga, invincibili istinti alla dottor Lecter.
Lo stesso Tarzan originale, diciamo sinceramente, non aveva granché da spartire con l'odierna visione bucolica ed ecologica (alla Walt Disney, per intenderci) dell'eroe svolazzante sulle liane col sottofondo musicale di Phil Collins. Il personaggio uscito dalla penna di Burroughs era invece l'archetipo del bianco anglosassone ottocentesco, destinato per superiorità divino/genetica a prevalere e a sottomettere (leggi colonizzare) ogni creatura inferiore (che fossero leoni, scimmie, negri o altre vili bestie).
E John Carter, il prode capitano dell'esercito sudista (come dubitarne?) che arriva su Marte e vi resta per ben dieci romanzi tra spade, mostri zannuti ed eroine in costume adamitico forse è anche peggio. Leggere le sue avventure è un'esperienza unica (nel senso che è impossibile sopravvivere a una seconda lettura), illuminante, se non altro per rendersi conto a che livelli di abiezione retorico/linguistica può giungere un mammifero prima di perdere le funzioni respiratorie.
E allora, perché darsi tanta pena? Be', in primo luogo come Macchina del Tempo. Tornando alla metafora del doppio specchio, leggendo Burroughs si scorge il passato attraverso una certa visione del futuro, come se si interpretasse un sogno per conoscere il sognatore. Nelle vicende di John Carter si legge di Marte, ma si intravede anche il mondo vittoriano a cavallo dei due secoli, quella cultura bigotta e romantica, bacchettona e focosa, religiosa e imperiale, che ha segnato e segna tuttora, profondamente, la tradizione dei paesi anglosassoni.
E poi, Burroughs aveva qualcosa. Quel quid indefinibile che fonde in sé l'esotismo, la tensione narrativa, l'avventura, la suspance e tutti gli altri ingredienti che rendono vibrante una storia. Quel dono che aveva ad esempio anche Salgari (un altro il cui stile era in grado di uccidere una vacca a dieci chilometri di distanza). Quella virtù per la quale molti odierni scrittori venderebbero volentieri la madre (con annuncio su Porta Portese e la sorella come offerta supplementare).
Burroughs l'aveva. Beato lui, ne era talmente pieno da tracimarne.
Ecco perché, dopotutto, si può arrivare alla parola "Fine" di un romanzo di John Carter vivi e con ancora qualcosa nello stomaco. Ed ecco perché noi, oggi, tentiamo di imitarlo.
Qualche rivincita, naturalmente, dobbiamo concedercela. L'occasione è troppo ghiotta, e noi siamo troppo perfidi per rinunciarvi. Crediamo che il risultato sia piuttosto divertente. A voi giudicare. Buona lettura.
Nick Carter e le lune di Marte
(di Edgar Rice Burroughs?)
Io, Dejah Thoris, figlia di Mors Kajak, principessa di Helium, erede dei più grandi Jed del popolo rosso, vergo questo manoscritto affinché le genti della mia città e le stirpi di tutto Barsom abbiano conoscenza e mantengano il ricordo degli straordinari accadimenti che stanno scuotendo dalle stesse fondamenta le candide mura di Helium. Trenta volte Barsom ha ruotato intorno al Sole da quando John Carter, valorosissimo guerriero, mio amatissimo condottiero e sposo, ci ha lasciato, dopo che in innumerevoli battaglie egli aveva arrossato la propria spada al servizio del nostro Jeddak, per tornare nella sua natia Virginia.
La memoria del suo caro aspetto è ancora viva in me. Egli era di fisico nobile, virile e ardimentoso: aveva spalle ampie, fianchi sottili, lo sguardo acuto e fiero, il portamento di chi è abituato a combattere. Il suo senso dell'onore era affilato come la lama che egli maneggiava con ineguagliata destrezza e ardire nella pugna. Ma allo stesso tempo egli era un uomo dolce e generoso, e si degnava di concedere la sua sovrana benevolenza anche ai membri delle razze inferiori, da perfetto gentiluomo bianco qual era.
Per questo, quando seppi del nuovo pericolo che minacciava Barsoom, il mio primo pensiero fu che soltanto John Carter avrebbe potuto salvarci. Corsi da mio padre e lo supplicai di ascoltarmi.
- Padre mio. - dissi - Convoca al tuo cospetto gli uomini saggi di Helium. Essi troveranno un modo per ritrovare il più coraggioso e forte tra i guerrieri.
- Dejah Thoris, figlia mia prediletta. - replicò lui - Darei tutto ciò che possiedo per portare indietro il tuo valoroso sposo. Ma tu sai che non è possibile: egli è morto.
Un lampo di puro orrore illuminò il mio viso mentre ricacciavo indietro quell'immonda eventualità. - Oh no, padre, non può essere.
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