Distopia, andata e ritorno

Un altro filone è parte della SF delle donne, a partire da La notte della svastica di Katharine Burdekin (Swastika Night, 1937), che chiama in gioco un ulteriore tipo di oppressione, legato ai ruoli sessuali. Ma l'arrivo della SF femminista, pur presentando utopie del ritorno a un passato pre-tecnologico, presenta anche delle distopie che invece abbracciano la possibilità di un sapere scientifico di liberazione, individuale e generale, come Sul filo del tempo (Woman on the Edge of Time, 1975) di Marge Piercy e The Female Man (1974) di Joanna Russ, come anche successive opere di James Tiptree/Alice Sheldon e di Pamela Sargent.

Ed è proprio questa la novità. Con gli anni Ottanta (a partire anche da un film come Blade Runner), non si può fare più a meno della tecnologia. E se il cyberpunk arriva talvolta ad esaltazioni acritiche della dimensione informatica (del cyborg, della realtà virtuale), negli autori più avvertiti emerge anche il dubbio, lo scetticismo, la distopia. Sono distopie quelle dei romanzi e dei racconti di William Gibson e di Pat Cadigan: l'invasione del corpo e lo spossessamento della mente vanno di pari passo con l'euforia dell'immersione nel ciberspazio. Da Neuromante di Gibson in poi, il regime non è più quello dello Stato unico ma quello (più realistico) di un sistema privatizzato non meno onnipervasivo. Forse anche per questo, questi autori riescono a trovare sempre qualche forma di resistenza, autonomia e sopravvivenza, nei rapporti interpersonali (finalmente, anche quelli fisici) e in quelli con la tecnologia.

L'incubo di un Nord del mondo privatizzato, balcanizzato da compagnie private e un localismo sempre più vicino al feudalesimo e alla schiavitù, è anche centrale in La parabola del seminatore (Parable of the Sower, 1993) di Octavia E. Butler e in Atti casuali di violenza insensata (Random Acts of Senseless Violence, 1993) di Jack Womack: "è tutta Serbia quaggiù", dice la protagonista di quest'ultimo. A questi esempi si avvicina, in Inghilterra, anche l'ultimo J.G. Ballard, quello di Super-Cannes (2000), con la sua gated community, la comunità fortificata che in apparenza è un idillio per privilegiati, ma rivela ben presto un fondo di violenza neppur tanto nascosta.

Forse con ancor più forza, la "trilogia di Orange County" di Kim Stanley Robinson racconta, in tre straordinarie varianti della stessa storia, la vicenda di una enclave protetta che scopre la realtà oppressiva che la circonda: una distopia più "politica" in La costa dei barbari (The Wild Shore, 1984), più classicamente tecnologica in The Gold Coast (1986), e una riconsiderazione di tutto il genere in Pacific Edge (1990). In quest'ultimo, è l'idea stessa di una "utopia per pochi" a essere messa in discussione nelle parole di un dissidente del passato: