Le battaglie dei libri
Ripartiamo. Perché gli anni Ottanta, comunque vogliamo definirli, segnano il rinascere della distopia nella sf di lingua inglese.
Ovviamente la distopia (la presentazione di un mondo immaginario drasticamente peggiore che aiuti a riflettere sullo stato delle cose nel "mondo reale") ha una lunga storia. Il Novecento si era aperto con Il Tallone di ferro (The Iron Heel, 1907) di Jack London, e nella letteratura popolare con libri quali The Air Trust (1915) di George Allan England, e con speculari distopie anti-socialiste.
Ma da un certo momento il dibattito strettamente politico diventa solo una parte del discorso distopico. Sempre più, a partire da La macchina si ferma (The Machine Stops, 1909) dell'inglese E.M. Forster e Noi del russo Evgeni Zamiatin (1922), la distopia diventa uno scontro sul ruolo della modernità (il progresso, la produzione, lo sviluppo industriale, la scienza, la tecnologia) che sembra aver reso impossibili i rapporti interpersonali, e soppiantato una dimensione vista come più "autentica" e umana. Sempre più, l'alternativa alla distopia diventa il passato. Una salvezza impossibile.
E diventa centrale il ruolo dei libri. In Il mondo nuovo (Brave New World, 1933) di Aldous Huxley la storia va minimizzata e cancellata per consentire il dominio basato sull'irreggimentazione, sull'eugenetica e sulle droghe. In 1984 di George Orwell (1949), per dominare il presente e assicurarsi il futuro è necessario il controllo del passato; si manipolano le notizie, si creano campagne (diremmo oggi) mediatiche che assicurano il consenso alle infinite guerre del regime, si riscrivono i libri e i giornali. In entrambi, la sconfitta del Selvaggio di Huxley e del mondo rurale di Orwell è inevitabile. I libri, dunque, diventano rappresentativi di quella cultura "vera", una vitalità ormai persa, cancellata dall'incubo della spersonalizzazione e del controllo.
Da loro deriva anche il Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953), che regala alla letteratura di fantascienza (e a tutta la nostra cultura), l'immagine dei roghi dei libri proibiti dalla nuova società dei media e dalla televisione. Ancor più che una distopia (riprendo una distinzione riproposta di recente da Darko Suvin) quella di Bradbury è un'anti-utopia, che si oppone alla (presunta) utopia della società dei consumi, in quel dopoguerra americano che vede l'inizio dell'affermazione della TV come fonte di intrattenimento culturale per le masse. .Sicuramente Bradbury non ha molta fiducia nelle nuove masse di alfabetizzati che, per esempio, in quegli anni stanno portando a un boom della lettura popolare (fantascienza compresa). Al contrario delle visioni disperate di Huxley e Orwell, Bradbury presenta un'alternativa che forse offrirà una via d'uscita dall'incubo, ma ancora si tratta di un ritorno al passato e all'autorità. L'autorità perduta da ricostruire è, dunque, quella dei libri imparati e recitati a memoria dal gruppo di dissidenti drop-out (simili ai monaci copisti del Medioevo che tramandavano i classici antichi) a cui si unisce il protagonista. Alla manipolazione ci si oppone, in fondo, nel nome di una visione statica della cultura.
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