Provo a mettere ordine nei collegamenti che mi sono venuti in mente dopo aver visto The Day after Tomorrow - L'alba del giorno dopo di Roland Emmerich. E sono tanti. Forse è anche questo un segno dell'importanza del film.

Perché ci sono state tante polemiche, di cui abbiamo letto. Alcuni "ambienti vicini alla Casa Bianca" si sono sentiti sotto accusa per il riferimento alla mancata firma dell'Accordo di Kyoto sull'effetto serra, e per un vicepresidente immaginario che è quasi un sosia del vicepresidente reale Cheney, presentato proprio nel suo Texas, e che all'inizio del film è ritratto mentre evoca questioni finanziarie per giustificare la sua veemente opposizione all'allarme dello scienziato protagonista. Ed è scattato il meccanismo del sospetto politico, vietando agli scienziati della Nasa di rilasciare interviste in proposito.

Più sotterraneo, forse, il disagio perché a parlare in qualche modo a nome dell'America è un regista europeo, come già aveva fatto Blade Runner. Descrivendo un "dopodomani" (come dice il titolo del film) immaginario, TDAT è un film che parla di America e di apocalisse, diretto da qualcuno che (ce lo aveva dimostrato già Independence Day, contro cui si era levata l'accusa, diametralmente opposta, di sciovinismo) crede profondamente nel mito, nel sogno dell'America. E riprende e riutilizza, a modo suo, immagini e situazioni che hanno dato forma a quella mitologia nazionale. Proveremo a ripercorrere qualcuna di queste immagini e situazioni, dando per scontata una conoscenza del plot (ampiamente raccontata in trailer e recensioni), senza ripetere giudizi già detti su pregi (la straordinaria spettacolarità) e difetti (i momenti irrealistici e melensi) del film. Il sogno americano è di tanti, ma persone e culture diverse possono sognarlo, immaginarlo, sperarlo in modi diversi. Forse per questo il "filoamericanismo" di Emmerich è riuscito a disturbare di più: il mito appartiene a tanti, e nessuno può rivendicare un diritto esclusivo di proprietà sui sogni.

Ere glaciali

Il titolo del mio articolo riprende quello del libro di Alessandro Portelli, America, dopo (Donzelli 2002) sull'attentato dell'11 settembre 2001, un evento evocato da moltissimi recensori. Fra i tanti articoli a parlare dell'11 settembre con riferimento alla fantascienza ce ne era stato uno sul Washington Post (14 gennaio 2002), Apocalypse Then: A Message for 2K2: il messaggio e il monito per il 2002 (l'apocalisse di cinquant'anni prima) era il classico romanzo catastrofico dell'inglese John Christopher, La morte dell'erba, del 1956.

Chissà se, provocato da quell'articolo, Emmerich (o uno dei suoi collaboratori) non abbia letto The World in Winter, altro romanzo catastrofico di Christopher del 1962 (noto negli Usa come The Long Winter; ed. it. L'inverno senza fine, Galassia 46, La Tribuna 1964). Anche qui c'è una nuova era glaciale, che decima la Gran Bretagna; e molti inglesi sopravvissuti emigrano in Nigeria diventando cittadini di serie B. In una delle scene più intense, si bruciano i libri delle biblioteche per trarne calore.

Difficile non fare un parallelo. In Christopher la fine dell'Inghilterra, con l'umiliazione dell'Impero che deve chiedere asilo alla ex colonia, è la fine della cultura highbrow nel mondo contemporaneo (e sicuramente si parla di uso scriteriato della tecnologia).