- In aereo.

Karen alzò le spalle. Lei, non aveva aperto bocca.

- Siamo rientrati in volo da Toronto - proseguì Byrne. - Alcuni mesi fa. Mi sono addormentato subito dopo il decollo. La grande occasione mancata - aggiunse.

- Non è detto - rispose la ragazza.

Il tono, esplicito, è quello d'un invito. Lascia perdere le canzoni non scritte, gli album incompleti, le scadenze discografiche: passa qualche ora con me, e dopo starai meglio, in ogni caso.

- Passiamo la serata/notte insieme.

(Undici anni più tardi).

Getti di vapore erompono dagli sfiatatoi, avvolgendo l'automobile in un sudario effimero. E' una Pinto del '76, color castagna. I fari illuminano i sacchi di plastica gonfi di spazzatura allineati lungo le ringhiere in acciaio, rivelano le scanalature sulle colonnine degli idranti. Poche insegne al neon - tavole calde, farmacie, blue-movies - si riflettono, sbavate, nell'asfalto brillante di pioggia.

Lo stereo divora un nastro che ha conosciuto tempi migliori. Byrne ascolta distratto la musica ben rifinita, gradevole, ma nulla di più e discute con Karen di materiale per alta fedeltà: TDK, Shure, nitidezza di suono, la pulizia dei dischi a secco, o con i liquidi speciali. Le antologie, gli album dal vivo, le collane a basso prezzo.

Lei abita a Brooklyn Heights, e dovranno attraversare il fiume. Portami verso il fiume, riflette Byrne. Karen guida verso casa senza manovre brusche. Osserva le precedenze; al verde riparte in un soffio. E' tranquilla e rilassata.

Lui... be', ci prova.

Salirono lentamente al terzo piano. Le scale strette, i pianerottoli oblunghi. L'appartamento era l'ultimo... proprio quello, laggiù in fondo. Byrne percepì il tramestio delle chiavi nella serratura; Karen spalancò la porta, e lui mise piede all'interno. Buio pesto.

- Un attimo - disse la ragazza.

Fece scattare l'interruttore e l'appartamento uscì dall'oscurità materializzandosi sotto i loro occhi. Dopo qualche passo Byrne si fermò, le mani sui fianchi.

Oh, Cristo, pensò.

Non se l'aspettava. Così illogico, assurdo.

L'unica fonte di luce era costituita da una lampadina... appesa al suo stesso filo. E la stanza dove si trovavano non era ammobiliata. Nossignori: le pareti apparivano nude, fredde e chiazzate dall'umido. A terra la moquette era lacera e sporca. I vetri dell'unica finestra, opachi di polvere. In un angolo scorse barattoli vuoti di minestra Campbell, scatole di pollo Swarison e tacchino Morton accatastate alla rinfusa... e ancora: blister di medicinali, pile di quotidiani e supplementi illustrati. Lo squallore della scena lo aggredì con violenza.

C'era una seconda camera, più avanti. Karen lo precedette, quasi danzando: la sua ombra si mosse festosa sulle pareti mentre gli volteggiava intorno, inclinando il capo e allargando le braccia.

- Ti piace? - domandò, senza interrompere il suo sconcertante balletto.

- Oh, incantevole - rispose Byrne.

Fai il punto della situazione, genio. Da quanto hai visto, almeno sinora, lei non dovrebbe abitare qui... neanche per sogno. Ammettendo però che lei VIVA in queste due stanze, e che non si tratti di una messa in scena...

Nella seconda stanza: al centro un televisore portatile, sistemato sopra una cassa d'imballo. Sul lato destro: un carrello porta-abiti in tubo d'alluminio, e una ventina di capi appesi alla barra centrale sigillati nei loro involucri in cellophane. Sul lato sinistro...

Byrne girò lentamente il capo; accusava una leggera sensazione di vertigine. Dei... contenitori?