L'impatto era il momento più difficile, il più pericoloso. Sapeva che pochi istanti ancora e l'avrebbe afferrato il desiderio di avvicinarsi alle gabbie e al buio cercare le sagome enormi delle bestie con le dita e frugarle a lungo, dentro; sapeva che presto sarebbe stato posseduto dalla voglia incontenibile di spalancare tutte le porte delle gabbie come un uomo impazzito che tenta di liberarsi dai suoi fantasmi più malvagi. Velocemente agitò le sue dita grasse sulla superficie della porta, cercando a tastoni la maschera appesa al chiodo. Ora doveva muoversi in fretta, anche se da tempo ormai la velocità era contro la sua stessa natura, anche se il suo corpo sembrava ribellarsi all'idea del movimento, allo scatto dei muscoli. Ma aspettare ancora sarebbe stato fatale. Si infilò la maschera e subito il sapore dolciastro dell'aria filtrata gli riempì la bocca. Per alcuni istanti agitò le braccia in avanti senza quasi pensare ai suoi gesti. Il silenzio era perfetto ora. Afferrò una delle sbarre della gabbia più vicina e la strinse e poi inspirò l'aria dalla maschera, e aspirò, ancora, ancora, tre, quattro volte, ancora, mentre le sue mani si muovevano attorno alla gabbia, mentre le sue mani si allontanavano da lui, le dita avevano cessato di appartenergli, semplicemente erano lì davanti, come cose, lontane da lui, sulla gabbia, le sue dita... Di colpo si scosse e capì, si rese conto di cosa stava per fare e una fitta di terrore si impossessò di lui. Con immensa fatica liberò un braccio dalla gabbia e estrasse una pila dalla tasca, la accese e puntò la fievole luce rossa verso l'altro suo braccio che ancora stringeva la gabbia. La sua mano era vicina alla leva che azionava l'apertura. Eppure non ricordava di aver sollevato il braccio, non ricordava. Pochi secondi ancora e avrebbe aperto la gabbia e...
Questa volta aveva aspettato troppo. Non posso più farlo, si disse, devo infilare la maschera quando sono fuori, pensò. Però così avrebbe perso il gusto generato dal pericolo, l'euforia che sbocciava in lui ogni volta che entrava nel capannone al tramonto, al limitare del momento della trasformazione.
L'animale nella gabbia aveva capito cosa stava per accadere, sapeva. Naturalmente. E subito cominciò a produrre un suono strano, un borbottio sommesso, come quello di una creatura che si sforzi di imitare una risata senza che il riso appartenga realmente alla sua natura. Allora anche gli altri animali attaccarono a ripetere quello sdrucciolare di suoni e il capannone si inondò di quei sussulti e quasi-risa frammentate da brevi ululati a frequenze altissime, urla che cantavano la rabbia per il mancato banchetto e il dolore che sempre li afferrava allo stomaco e alle zampe quando percepivano la presenza di cibo vicino e potevano odorarlo e vederlo muoversi, l'odore di carne così vicina alle loro zanne, alle loro bocche spalancate.
Ormai al sicuro dietro la maschera, rilassato dopo il pericolo, l'uomo rabbrividì di piacere a quei richiami familiari. Come sempre la curiosità premeva in lui, ora, avrebbe voluto comprendere il linguaggio celato dentro quei suoni che solo di notte erano capaci di emettere, avrebbe voluto accendere la luce per ammirarli finalmente anche di notte, capire cosa facevano e vedere finalmente i loro corpi assumere le diverse forme. Ma sapeva che accendere la luce avrebbe significato perdere l'intero liquido di una settimana e immediatamente questo pensiero lo trattenne dall'azionare l'interruttore. Eccitato, rimase a lungo ad ascoltare il loro canto, il lamento da fame dopo il mutamento.
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