Dal mio salone, sul megaschermo al plasma da diecimila euro, vedemmo infine il servizio conclusivo sulla nostra città, della cui endemica miseria noi non rappresentavamo che uno degli inevitabili frutti.
Finimmo i soldi, le banche ci boicottarono, i nostri genitori si impaurirono e non ci finanziarono più. Un fulgido avvocato californiano sostenne che era stato il nostro portachiavi ad aver indotto il suo assistito a sterminare la famiglia, e chiese un risarcimento danni di centottanta milioni di dollari.
Fallimmo.
Ma diventammo interessanti per le organizzazioni criminali e, malgrado rifiutassimo con determinazione perfino i contatti che queste cercavano di stabilire con noi, i giudici pensarono bene di perquisire le nostre abitazioni, sequestrare tutto il nostro materiale e diffidarci dal continuare qualsiasi attività, anche solo di ricerca, con la nostra tecnologia.
Pochi giorni dopo fu ordinata anche la perquisizione delle abitazioni dei nostri amici e parenti. Scovarono il riproduttore che avevo dato a mia nonna. Corsi subito al pensionato e scoprii che dopo la visita dei carabinieri la direzione aveva deciso di sistemare mia nonna in un sottoscala, separata e lontana da tutti gli altri.
Presi la nonna e me la portai a casa.
Il primo luglio, a seguito degli apparecchi trovati durante le perquisizioni, i giudici ci intimarono gli arresti domiciliari e il divieto di frequentarci. Mi fu messo un braccialetto al polso e così iniziarono i miei lunghi mesi di clausura in casa con mia nonna.
Ma non sarebbero durati molto. Quello che il resto del mondo ignorava è che noi non avevamo bisogno di parlarci per intenderci. E nelle lacrime di mia nonna che invocava il riproduttore, che diceva che per lei era una questione di vita, che non potevo capirla; nel buio di Elena, strappata a Romeo e rigettata nel nulla percettivo; nella vivida percezione del dolore delle ragazze e dei ragazzi che giungeva acuminato a rinforzare quello mio, distinguevo anche chiaramente quell'energia che ci aveva sempre unito. E allora aspettavo, e sentivo, e capivo: la nostra storia non era ancora finita.
Accadde una settimana prima del Natale successivo.
Matteo venne da me e mi spiegò che Elena non poteva più vivere senza Romeo e l'interfaccia voce-sensazioni. Matteo avrebbe potuto ricostruire tutto, ma aveva bisogno di una cosa: tra quanto gli avevano requisito c'erano alcune specifiche che gli erano costate quattro anni di ricerca. Quelle informazioni erano insostituibili. Matteo aveva un piano al quale aveva lavorato per mesi con Romeo: entrare nel deposito della polizia dove c'erano le nostre cose, copiare il file che gli serviva su una memoria che aveva ricavato da una macchina fotografica digitale, lasciare il deposito senza prendere niente. Nessuno si sarebbe accorto di nulla. Lui e Romeo avevano già scoperto qual era il deposito ed erano riusciti a procurarsene le chiavi; me le fece vedere.
Io non aspettavo altro. E Matteo mi disse che lo stesso era per gli altri.
Mi fece qualcosa al braccialetto con un suo marchingegno e uscimmo di casa. Rividi tutti i miei amici poco distante dal deposito. Fu bello; dopo mesi. Non sarebbe servito andare tutti e diciotto, ma fu bello. E forse per questo c'eravamo tutti. Comunque saremmo entrati solo io, Matteo, Romeo e Pietro. Gli altri non si sarebbero neanche avvicinati al deposito; ci avrebbero aspettati lì, lontani e al sicuro.
Entrammo senza nessun problema. Nel deposito c'era un sacco di roba oltre alla nostra. Roba infiammabile; mi sembravano fuochi d'artificio, forse appena sequestrati prima del capodanno. Io, Romeo e Pietro ci sedemmo su alcune casse mentre Matteo copiava il file. Quando Matteo finì, ci mostrò sorridente la memoria, un rettangolino di due centimetri. Ci avviammo verso l'uscita ma, all'improvviso, tutte le luci del capannone si accesero.
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