Matteo portava due segni di quell'evento: il primo era una cicatrice da ustione sulla fronte, che copriva con alcuni ciuffi della capigliatura rossa e arruffata; il secondo non si vedeva, lo si intuiva dal suo sogno.
Verso la fine del primo liceo tentò di spiegarcelo. Prese uno dei nostri libri di testo, un tomo pesante di centinaia di pagine, e con quello in mano disse: - Supponiamo anche che capisci tutto alla prima lettura. Quanto tempo ci metti a leggerlo? Giorni! Nel migliore dei casi. E' come voler innaffiare un orto con un contagocce.
Romeo osservò: - Ci vorrebbe un erogatore più potente.
- Be', c'è di meglio. L'ideale sarebbe se il testo del libro potesse finire direttamente nei tuoi neuroni, senza passare per gli occhi. Intendo qualcosa come una scorciatoia. Una cosa che anche senza sentire o vedere hai già inteso.
- Eh, sì! Come succede tra noi.
Non ricordo chi lo disse, e magari voleva solo suggerire di passare a discorsi più leggeri. Ma ricordo che Matteo sorrise e che da allora accettò che usassimo scorciatoia per indicare la nostra intesa; anche se per lui quella scorciatoia è sempre rimasta solo una giocosa volgarizzazione di ciò che intendeva veramente.
Abitavo con i miei genitori e mia nonna in un ampio appartamento a Posillipo, con un grande terrazzo dal quale si vedeva tutto il golfo di Napoli. Tolto l'albero, se si prende la cartolina più famosa di questa città, si ha una buona idea della vista cui mi riferisco.
Mio padre era un chirurgo estetico, mia madre la sua assistente; lavoravano ogni giorno in una città diversa d'Europa. Li vedevo quei rari week-end che tornavano a casa. Per il resto ho sempre vissuto con mia nonna. Era la mia guida, un vero mentore. Sfortunatamente, però, aveva l'Alzheimer e all'inizio del secondo liceo fu ricoverata in un pensionato.
In ogni caso, a parte poche ore la mattina mentre ero a scuola, quando la cameriera veniva a riordinare, l'appartamento divenne incontrastato dominio mio e dei miei amici. Eravamo sempre i soliti, noi della classe e nessun altro; da tempo la scorciatoia non era una caratteristica gradita fuori dalla nostra cerchia.
Il terzo anno Pietro si fece beccare dal preside con una canna in bocca, e fu sospeso per una settimana. Noi, per solidarietà, non mettemmo piede in classe per tutto il periodo di sospensione. Il preside s'incazzò; fece leggere in tutte le aule, e inviò ai genitori di tutta la scuola, una circolare nella quale spiegava che purtroppo c'era una classe di scolari immorali, drogati, usi a vivere ai margini della criminalità. Alcuni genitori s'impaurirono e spostarono i figli in altre sezioni. La cosa si ripeté più volte negli anni; finché, in quinta D, rimanemmo solo in diciotto.
Eravamo le pecore nere, esclusi e mal reputati in tutta la scuola. Non solo i professori ci osteggiavano, ma perfino i coetanei delle altre classi ci erano ostili; sempre pronti, anche loro, ad accusarci di qualcosa. Come la volta del quarto anno, quando fu trovato un aborto nel bagno delle ragazze. Fummo subito additati; era stata sicuramente qualche puttana della nostra classe rimasta fregata in una delle mitologiche orge cui, secondo loro, eravamo dediti più volte alla settimana.
Eravamo belli come il sole, i più felici della scuola, coscienti dell'invidia che attiravamo. Ce ne sbattevamo degli altri, vivevamo in un mondo nostro. Come quando ce ne stavamo sul mio terrazzo sotto il sole a cazzeggiare per ore; finché, all'improvviso, e succedeva puntualmente, qualcuno, con fare mistico, gli occhi spiritati, un dito rivolto al nulla oltre la ringhiera, ci invitava a guardare il golfo. Era il tramonto; per decine di minuti cadevamo in catalessi contemplativa.
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