<i>Blade Runner:</i> Roy Batty
Blade Runner: Roy Batty
Non così in Blade Runner (id., regia di Ridley Scott, USA 1982), il film giustamente più rappresentativo di questo filone del cinema di fantascienza. Qui la ribellione dei replicanti, esseri sintetici usati nell'esplorazione e colonizzazione di altri mondi, acquista pian piano un'inerzia morale, da pericoloso ammutinamento diventa eroica (quanto vana) rivoluzione. Questo movimento corrisponde al graduale trasferimento del ruolo convenzionale di eroe dal cacciatore di replicanti, Deckard, al capo dei ribelli, Batty, passaggio che si completa quando - in punto di morte - quest'ultimo rifiuta di uccidere l'antagonista. Parallelamente, l'oggetto dell'immedesimazione dello spettatore si sposta da Deckard, un ex-poliziotto che vive nello squallore e nella solitudine, a Batty e ai suoi compagni di viaggio, che finiscono con l'emergere come le vere vittime. Liquidare in poche righe il film - che per ricchezza di temi e complessità, specie con la reintegrazione del Director's Cut, rimanda al già ricordato L'invasione degli ultracorpi - è senz'altro riduttivo, ma quel che interessa qui è la sua capacità di rappresentare con grande empatia la sofferenza della macchina. Così come in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, regia di Stanely Kubrick, sceneggiatura di Arthur C. Clarke, GB 1968) la celebre scena della disattivazione di Hal-9000, il computer di bordo dell'astronave Discovery divenuto omicida, mescola il sollievo nel veder distrutto il pericoloso antagonista al senso di pietà che il regresso infantile e le suppliche di questi suscitano; così anche in Blade Runner la sconfitta di Roy Batty diventa - perfino melodrammaticamente, con quel chiodo conficcato nella carne e le lacrime che si mescolano alla pioggia - l'immagine di un martirio, anziché della giusta punizione di un comportamento distruttivo.

I due film producono così la faticosa e dolorosa conquista del punto di vista dell'altro, ma senza creare la totale identificazione con l'umano che ritroviamo, ad esempio, al termine de L'uomo bicentenario. Batty e Hal non aspirano a diventare uguali, ad essere inclusi, ma solo ad essere lasciati liberi di esistere; a questa diversità Batty in particolare si aggrappa fino all'ultimo ('ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare...'). Ma è proprio l'ambiguità della loro natura, il loro affacciarsi ai confini dell'umano pur senza oltrepassarlo, a mettere in crisi i criteri di accettazione dello spettatore. Si crea così una tensione tra empatia e distanza, tra tolleranza e rifiuto, che incrina le certezze su cui si fonda la nozione di famiglia umana, e con lei quelle di società, convivenza, diritti.

Il riconoscimento dei diritti umani passa attraverso l'immedesimazione con la sofferenza di un altro essere, e la realizzazione che potrebbe essere la nostra; che ad unirci non è solo l'appartenenza alla stessa famiglia, allo stesso partito o alla stessa nazione, ma la capacità di soffrire in maniera uguale il dolore, l'ingiustizia, la povertà o l'abbandono. Combinando e ricombinando infinite variazioni sul tema dell'altro, la fantascienza civile di film come Il golem, L'invasione degli ultracorpi o Blade Runner ci ricorda che il mostro, l'alieno, il cyborg non sono altro che incarnazioni di noi stessi, rappresentano l'umanità ai margini che preme per conquistare il centro, ovvero il diritto alla vera cittadinanza. Se questa fantascienza fa paura, è solo perché ha scelto di giocarsi il futuro anziché difendere un presente in cui i diritti appartengono a troppo pochi.