"Ingiusto non ricordare", si dice nella prima pagina del primo racconto (Il dolore del marmo): il ricordo può essere anche intollerabile, ma trasformarlo in narrazione e relazione è indispensabile; questa è la sfida raccolta dai protagonisti di tutte le storie.
Nel secondo racconto (La macchina), un personaggio descrive a un altro l'importanza del "da che parte stare" rispetto al "con chi stare". Ma la straordinaria intensità del libro sta nel fatto che quell'invito non venga seguìto. Se esistono gli atti di superamento delle barriere, che portano al contatto col portatore di quelle memorie inaccettabili, questi atti si basano (e mi vengono in mente Mark Twain e l'"empatia" di cui parlava Dick) su una scelta nata dal rapporto diretto con l'altro concreto, non sull'ideologia o su scelte di campo razionali e astratte.
In questo senso, la presenza centrale e unificante, che ritorna a volte con diverse, molteplici maschere, è quella di Ain, dottoressa che entra in contatto con molte di quelle vittime, figura utopica di guaritrice che cerca di riparare il cielo e il mondo, e comincia dai corpi. Resto convinto che un giorno sarebbe bello leggere la sua storia personale, sapere come abbia iniziato la sua carriera, in quali circostanze sia maturata la sua scelta.
La dottoressa, si dice in Ain: Del nome dei numeri e della riparazione del cielo, agisce in un "centro medico" situato "fra la miniera e la città" e incontra persone che ci sono finite dentro, portandosi dietro anche "le fratture dell'anima". C'è qualcosa di simile fra le geografie urbanistiche e quelle intime. Sono quelle fratture che il libro esplora. E forse la domanda principale, che Primo Levi, prima di ogni altri, ci ha insegnato a chiedere (a chiedere a noi stessi) è: esistono parti del cielo che non possono e non devono essere riparate? Parlare di alcune divisioni è possibile, superarle non lo è. Per questo motivo diventa davvero importante la storia implicita di Ain: perché, dopo tutto, non credo che quella sia la prima volta che lei ha incontrato "dal vero il nemico".
E dunque, quali sono le sue fratture? Come è arrivata lì, da persona di potere? Voglio chiedermelo perché è proprio un atto di potere - di potere semidivino - quello che lei compie alla fine di La discesa interrotta dal rosa e dal blu, decidendo di "staccare il collegamento fra mente e corpo" di Tolmos, sopravvissuto all'orrore. Vincendo le istintive diffidenze a cui il cinismo imperante mi ha abituato, devo interrogarmi mentre leggo, e leggere quella soluzione (in cui Ain assume il ruolo di dea ex machina, sconfiggendo il dolore) non come una consolazione ma come un invito a tornare a concepire la possibilità che la distopia possa avere un termine, che un altro mondo sia possibile.
Molte di queste cose, e molte altre, le troviamo nel conclusivo romanzo breve Una cronaca manichea, costruito, come i precedenti racconti, come storia a più voci. E anche quella scelta ha un senso profondo: se la tortura vuol essere un modo per "scrivere" nei corpi altrui una voce di potere, qui le voci sono multiple. Entra in ballo, e giustamente, la schiavitù, la violenza sul corpo e sulla persona trasformata in orrenda normalità sociale. C'è la memoria come fonte di resistenza. Ci sono i conflitti nati dalla permeabilità dei "limiti", metaforici e reali, a volte indebiti e a volte necessari: la più originale di tutte le sottotrame che affollano il romanzo è l'accenno ai cyborg come entità intermedia fra persone e schiavi, che le fratture se le portano addosso dentro il corpo (e continuo a pensare a un dimenticato fumetto della serie Deathlok della Marvel Comics, The Souls of Cyber-Folk, del 1991, degli afroamericani Dwayne McDuffie e Denys Cowan, e a un bellissimo racconto mai tradotto di Maureen F. McHugh, Nekropolis, uscito su Asimov's nel 1994). C'è la violenza della schiavitù come centro della società, da rimuovere dal mondo ma impossibile da rimuovere dall'esperienza di chi l'ha vissuta; c'è da chiedersi come la racconterebbe lui quella storia, e come la racconterebbe Tolmos la storia di Ain?. C'è la violenza come spettacolo (l'esposizione del condannato). Insopprimibile, c'è il bisogno di raccontare, che è innanzitutto un bisogno di bellezza, di una integrità da (ri)costruire, letteralmente, un pezzo alla volta.
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