
La pressione prima del disegnare poi dello scrivere - associata alla sofferenza del non potere assecondare tale pressione se qualche impedimento priva della possibilità - è sempre stata molto forte, ma contrastata da un'altra pressione, quella del far qualcosa subito davanti ad una situazione concreta di sofferenza altrui. Per un insieme di circostanze la mia vita si è riempita dall'infanzia di scelte così. Penso che scrivere si sia fatto strada fra esse nonostante. Sicuramente non invento nulla di nuovo, sono sensazioni già note e descritte da autori molto diversi fra loro. Ad esempio Mishima in Lezioni spirituali per giovani samurai (edizioni Feltrinelli, trad. di L.Origlia) parla della sofferenza terribile del non potersi esprimere per qualche impedimento e Christa Wolf e Joachim Walther in Pini e sabbia del Brandeburgo (Die Dimension des Autors, edizioni e/o a cura di M.T. Mandalari) descrivono molto bene le caratteristiche che ritengono tipiche di chi scrive e la conseguente antica contraddizione fra scrittura e azione di fronte alla sofferenza. E Yourcenar (cito a memoria da Un uomo oscuro) scrive una frase per me giusta e meravigliosa: "L'immenso rumoreggiare della sofferenza del mondo ci ucciderebbe se in un momento qualunque ci attraversasse completamente".
Perchè scegliere la fantascienza per raccontare di violazione dei diritti umani? Affrontare il problema da un punto di vista realistico ne comprometterebbe la prospettiva? Richiederebbe troppi vincoli e/o troppe specificazioni? Troppe giustificazioni?
E' che a parer mio "c'è poca fantascienza" negli umani e nel mondo. Se ce ne fosse di più sarebbe un bene. Una palletta di fango e bruma rotola nello spazio ma i suoi abitanti allungano follemente le distanze fra i luoghi, distanze che su una palletta non possono essere altro che insignificanti e così a molti sfuggono le somiglianze fra Campo 1 a Città del Messico, Drapchi, Guantanamo, Bolzaneto per due giorni. Certo i contesti e le durate sono diversi ma i meccanismi all'interno legati al non-riconoscimento dell'Altro sono simili. Simili sono anche le reazioni degli umani nell'essere messi a conoscenza dell'esistenza di questi luoghi: incredulità, dileggio e scherno delle testimonianze, sminuimento di rischi e conseguenze, sottolineatura della necessità di certi sistemi giustificandoli con esigenze varie. Somiglianze di reazioni che non smettono di stupirmi. Anni fa scrivemmo (io e altri soci di Amnesty International) ad autorità di un Paese centroamericano chiedendo notizie di persone "scomparse" nei pressi di caserme e chiedendo spiegazioni per le denunce di alcune persone che raccontavano di violenze durante periodi successivi all'arresto. Ricevemmo quale risposta un lungo elenco delle violenze perpetrate dai gruppi di guerriglia. Ma non avevo/avevamo scritto ai comandanti dei gruppi di guerriglia... ciascuno è responsabile per sé. Nella banalità del male e in quella del bene. Capita ancora ora di sentire alla tivu qualche autorità (anche del nostro Paese) rispondere a domande su denunce di violenze di forze dell'ordine con l'elenco delle violenze dei manifestanti (e le risposte di questi sarebbero viceversa) e alle richieste di chiarimento su violenze successive all'arresto chiedersi cosa avevano fatto gli arrestati...
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