Una pseudo-citazione beatlesiana (sono un po' maniaco; i Fab Four li cito appena posso) per ricordare che ventisette anni fa, nell'aprile 1976, usciva in edicola il primo numero di Robot, una pubblicazione sottotitolata "rivista di fantascienza". 126 pagine, 700 lire. Altri tempi, altri prezzi. D'altronde, oggi non esistono più nemmeno le lire. Ha trionfato l'euro. Come si cambia.
Robot, della cui triste fine dopo quaranta numeri non desidero parlare molto, a mio (im)modesto giudizio è stata la quintessenza della rivista fantascientifica: narrativa breve, con qualche rara incursione nel romanzo, magari a puntate; rubriche di attualità, per tenere informato il popolo della sf su ciò che accadeva all'interno del nostro campo in Italia e nel mondo; articoli sui massimi e sui minimi sistemi; colloquio a ruota libera col pubblico attraverso la posta e rubriche come "Contropinioni", dove ognuno poteva dire la sua; abbondanza di materiale iconografico, dalle fotografie degli autori (quante facce sconosciute da noi sono apparse lì per la prima volta?) alle copertine dei libri ai fotogrammi dei film alle convention; raffinata eleganza grafica; splendide copertine e illustrazioni interne dell'immortale Giuseppe Festino. Eccetera.
Dirigevo io: un direttore che ha avuto la fortuna di trovare un'orchestra composta di grandi musicisti, eccellenti solisti. La responsabilità globale dell'assemblaggio gravava sulle mie spalle, ma con collaboratori come quelli c'era poco da avere paura. A livello di qualità del materiale, intendo. I risultati di vendita sono un triste, amaro discorso che sta a sé; e se siamo defunti in un arco di tempo così breve, siamo in ottima compagnia.
Robot era una sintesi, al massimo che mi sia mai stato consentito, di esperienze tanto mie quanto altrui: le fanzines che facevo nei Sessanta, Il bollettino dello SFBC che curavo con Gianni Montanari nei Settanta, e poi Gamma, Oltre il Cielo, Futuro, Nova SF*, Futuria, e chi più ne ha più ne metta. Il panottico della fantascienza. L'Eden dell'appassionato duro e puro. Il paradiso perduto e riconquistato. Ovvio, io l'ho vissuta così: evidentemente, visto il rapido degrado dei tabulati delle vendite, in Italia non dovevano esserci troppe persone a condividere il mio entusiasmo. Abbiamo subìto lo stesso destino di tutte le riviste di fantascienza italiane che si rispettino: abbiamo chiuso.
Quindi, quando mesi fa Franco Forte mi ha telefonato per propormi di tornare a dirigere Robot, il mio primo pensiero è stato: "Franco è impazzito." Subito dopo mi sono ricordato che è matto come un cavallo da quando lo conosco, e questo mi ha rassicurato. C'è stato un primo incontro a casa di Silvio Sosio, altro svitato integrale, l'estate scorsa. Mi sono schermito, ho fatto presente che avrei volentieri collaborato lasciando ad altri l'onore/onere della direzione, ma niente, quelli sono pazzi furiosi, a contraddirli c'è da rischiare grosso. Volevano a tutti i costi il marchio doc del sottoscritto: la continuità (indubitabile) nella diversità (si spera), per adottare uno degli slogan politici che più adoro, assieme alle "convergenze parallele".
Sicché, nel bene e nel male, ho ripreso in mano la bacchetta e ho ricominciato le prove d'orchesta. Che ora, finalmente, culminano in questo numero 41 (eh eh) di Robot, la nostra prima sinfonia dei tempi nuovi. Tempi che corrono, galoppano fitti fitti, a volte ci passano sopra la testa, di certo ci tirano parecchi calci, e sono così inquietanti e affascinanti da rimirare.
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