Strisciò in avanti come un serpente e tolse la sicura al fucile. Le sembrava di trovarsi sotto le rovine di un macello: c'erano cadaveri davanti agli usci, donne e bambini con i volti nudi e grigi come la cenere. Non avrebbe voluto guardare ma loro restavano lì anche se chiudeva gli occhi.
Aveva da tempo smesso di piovere ma l'acqua non era riuscita a scacciare dall'aria il pulviscolo grigio. In lontananza si potevano udire i latrati dei cani affamati. Lei rabbrividì e si guardò le gambe coperte dai morsi; le ferite dolevano ancora ma nei magazzini del porto, tumulati dalla rena, era fortunosamente riuscita a trovare una cassetta di primo soccorso con dell'antisettico e delle fiale di siero antirabbico. Si tastò il ginocchio: aveva i calzoni stracciati e la pelle scorticata. Cercò di pulire le ferite dalla polvere di cenere ma era dappertutto sulle mani e sotto le unghie. Infilò la siringa stringendo i denti.
Le sarebbe piaciuto vedersi, specchiarsi nell'acqua, ma il porto era lontanissimo da lì. Portò agli occhi lo Zeiss 8-25 coprendolo con le mani per evitare i riflessi e controllò la situazione attorno. Non li scorgeva ma sentiva la loro presenza e sapeva che potevano vederla bene quanto lei e il binocolo vedeva loro.
Stava zitta e immobile e loro stavano zitti e immobili. Ascoltò trattenendo il fiato: nulla. Aveva paura e quasi tremava, cercava di dominarsi ma le vene le pulsavano forte contro la gola.
Ogni minuto era uguale e fisso come i giri di ruota del depuratore, un monotono ritornello d'ingranaggi. Un giorno ancora. Ispezionare ancora una volta il rifrattore e osservare la luce del faro dissolvere con efficienza le ombre che si diramavano da ogni rudere. Non aveva smesso di sperare, per questo il faro doveva rimanere acceso: era possibile che altri fossero sopravvissuti e la luce li avrebbe guidati.
Lasciò che i pensieri cadessero col peso morto di ciottoli nella sua mente. La risacca di memorie si ritirò lasciando le immagini di una luna grande che illuminava il lago, e una strada tutta fiancheggiata di giardini odorosi, e una voce calda, e un riso tintinnante e il rumore delle onde sulla riva. I ricordi erano un groppo in gola e inghiottendo li cacciò giù, nella parte più lontana dalla sua mente, ma quelli tornarono a galla.
Erano partiti mentre il mondo era immerso in pensieri di guerra, partiti perché avevano paura, o perché non ne avevano, per scavare o seppellire qualcosa; e ora l'orrore era indissolubilmente legato alla vita, ora non c'erano altro che scheletri di porte, su cardini d'acciaio corroso, che non conducevano in alcun luogo, e cenere che cadeva in granelli neri. Gli uomini se n'erano andati lasciando sulla Terra i vecchi peccati solo per trovarne di nuovi e più terribili, peccati cui nessuno aveva mai pensato. Una tortura amara, senza nome, li aveva portati lontano e non avrebbe lasciato di loro neppure le orme sulla cenere.
Aveva visto tante cose durante il sonno che dovette fare uno sforzo per ricordare il motivo di tutto quel buio. Ancora nella sua mente l'idea che svegliarsi fosse luce non se n'era andata. Si premette le mani sugli occhi e piccole farfalle luminose si librarono nell'oscurità, premette ancora una volta e le farfalle divennero azzurre scariche elettriche. Stranamente gli incubi, i sogni e i pensieri che gli facevano avere paura di se stesso, non l'avevano tormentato.
Lei non c'era, era uscita a cercare cibo, anche se non lo diceva mai. Diceva solo 'vado fuori' e lo lasciava solo, al buio. No, quello non era buio: nel buio si vede il nulla. Era piuttosto uno schermo nero, sopra il quale le immagini scorrevano rapide, precise, era uno stato di perenne, sterile concentrazione.
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