Ci nascondemmo in un angolo, dietro una grossa gabbia. Avevo le piume bianco sporco di una gallina a pochi centimetri dagli occhi, avrei potuto studiarle, ammirarne la morbidezza, ma la paura aveva ripreso il controllo impedendomi di osservarle.

Entrarono due uomini e una donna in camice bianco. Esitarono, la donna disse qualcosa sul nervosismo delle bestie. Mi sentii perduto, ma proseguirono passando nella stanza successiva.

- Dobbiamo filare a razzo - disse Serra con voce strozzata.

Detti un ultimo sguardo, una fuggevole occhiata a quel paradiso vietato. Tutto ciò che potevo fare era scavarmelo nel cervello, farlo durare di più, dargli spazio tra ciò che poteva soffocarlo e portarmelo dentro. Renderlo un fine, per evitare di obliarlo. Troppo poco. Appena trovato e già irrimediabilmente perduto. Uscimmo nella notte, ore come attimi in un tempo altro, fatto di battiti di cuori di esseri viventi e non di tempo-macchina. Un tempo altro per uno spazio diverso senza autobus piogge acide e terminali di computer.

Corremmo al buco nella rete. Serra scivolò per terra con un rimbombo. Una voce intimò l'alt. Seguì una confusa visione di tute da combattimento affondate nella semioscurità e nella nebbia giallastra. Sgusciammo oltre la rete, dietro di noi crepitò una raffica.

A Ferrara ci arrivai da solo. Io e Serra ci eravamo persi di vista. Presi quasi al volo il primo turbotreno per Bologna, e mentre partiva vidi la stazione riempirsi di divise emergenti dalla nebbia come incubi. Abbassai le tendine e misi il fermo alla porta. Preoccupato tastai l'uovo, portandolo timoroso alla luce nello scompartimento vuoto. Miracolosamente intatto. Sedetti, studiandone la superficie perfettamente liscia. Libero, fuori da quelle mura destinate a imprigionarlo, sembrava ancora più bello, luminoso.

* * *

Rimasi a rigirarmi nel letto, stanco ma insonne. Serra non si era fatto sentire per il più giustificato dei motivi. Per il giornale era stato investito da un camion militare alla periferia di Ferrara. Non credetti all'incidente, comunque non sapevo cosa fare. Per la prima volta e senza dire niente a Francesca, mi diedi ammalato e trascorsi l'intera giornata vegliando l'uovo avvolto nella lana su una borsa d'acqua calda. Così come un padre può vegliare trepidante il figlio neonato. Stupito dal miracolo e impaurito dal cammino che cominciava solo ora. Non ne avevo nemmeno parlato a Francesca: tutte le volte che cercavo di dirglielo, prendevo tempo. Forse perchè non la trovavo mai calma e rilassata, e dell'uovo non si poteva parlare in certi momenti, era come sporcarlo, rovinarlo. Ma da quanto non vedevo Francesca calma e rilassata?

Bussarono alla porta, sospirai, sapevo chi era.

Li aspettavo da ore. Ma perchè il Servizio Segreto doveva essere più efficiente di altre branche dell'amministrazione statale?

Francesca vicino a me si agitò nel sonno. Era rimasta a fare quattro ore di straordinario, come quasi tutti i giorni. Arrivata a casa l'avevo dovuta spogliare e mettere a letto, da sola non riusciva ad arrivarci, ubriaca di stanchezza. Suonarono ancora, più prepotenti. Infilai la vestaglia e passai nella zona giorno del monolocale chiudendomi dietro lo scorrevole. Aprii, per evitare che mi scardinassero la porta. Erano in due, alti e massicci; più che uomini del Servizio Segreto sembravano sicari. Entrarono senza che li avessi invitati ad accomodarsi. Mi tirarono di lato, altrimenti mi sarebbero passati sopra. - E' solo?

- In camera da letto c'è mia moglie, ma dorme.