Alla luce di tutto quanto detto, resta da chiedersi se in circa mezzo secolo lo spazio disponibile sia stato davvero troppo ristretto perché la nostra sf potesse prendere l'abbrivio, quali che ne fossero le tendenze prevalenti. Forse il problema è che aperture ce ne sono state, ma rare e scoordinate, con lunghissimi periodi di totale chiusura.
Insomma non c'è stata continuità: il mercato asfittico o capriccioso non invogliava gli scrittori a investire il loro tempo nella impegnativa stesura di romanzi, per cui molta gente entrava e poi usciva delusa dalla sf, senza che si potesse consolidare un nucleo stabile sul quale costruire. Un altro ostacolo era anche la rigida catalogazione editoriale dei generi narrativi: una valida storia fantascientifica, che però non rispettasse integralmente i canoni consueti, metteva in crisi i curatori ed editori che non avrebbero saputo in quale collana inserirla. E molta parte della nostra sf continuava a non adeguarsi del tutto agli standard. Il tardo avvento della "contaminazione dei generi" ha capovolto lo scenario, ma nel frattempo quasi tutti i "vecchi" hanno abbandonato. E che il capovolgimento sia avvenuto, è una fortuna. Chissà, lo stesso Evangelisti in certi anni trascorsi avrebbe forse dovuto faticare molto per farsi pubblicare!
Un unico risultato credo, in definitiva, che la nostra fantascienza abbia ottenuto nei decenni: esprimere alcuni nomi d'un certo rilievo, senza peraltro riuscire né a costruirsi un'identità, né a porre le basi per una costante produzione di livello nazionale. I nostri maggiori autori, tranne un paio di casi, restano illustri sconosciuti fuori del giro e benché validi di per sé non hanno stimolato un seguito, fondato una scuola, formato un gruppo, creato una coesione attorno ai comuni problemi (contrariamente a quanto è accaduto per il "giallo"). Potrei passare in rassegna le caratteristiche salienti degli scrittori di sf più noti, vecchi e nuovi: chi conosce i vari Evangelisti, Grasso, Masali, Vallorani, Altomare, Curtoni, Aldani, Asciuti, Pestriniero, Ricciardiello, sa che essi hanno ben pochi tratti in comune, tranne il fatto che - ancora - non scrivono una fantascienza di tipo "americano". Per il resto, essi esprimono più che altro... se stessi: buone, talora eccellenti personalità narrative. Che è già molto. Ma ognuno è una monade. Ma dopo 50 anni qual è, dov'è, l'identità della sf italiana?
Discutendo di questi argomenti per posta elettronica, recentemente ho raccolto alcuni pareri interessanti e vorrei riportarveli in chiusura.
1) Antonio Caronia (saggista, giornalista, esponente di punta del Collettivo "Un'ambigua Utopia" negli anni '70).
Gli scrittori italiani "di genere" che si sono succeduti negli ultimi 40/50 anni, al di là delle ottime intenzioni di alcuni di loro e a prescindere dal giudizio sulle loro opere, non si sono mai configurati come "genere" sul piano oggettivo, anche se soggettivamente si sentivano e si sentono parte del genere sf. Valerio Evangelisti, credo sia un caso molto particolare, anche perché avrei dei dubbi a leggere la sua produzione come fs, e la ascriverei piuttosto al filone della "science fantasy". Tra le cause di questa situazione indicherei, oltre al gap tecnologico-scientifico:
-- l'assenza dell'Italia dal fenomeno più innovativo nelle letterature europee a partire dal XVII secolo: la nascita del "romanzo" (inserendovisi solo con alcune non eccelse produzioni nell'ambito del sottogenere del romanzo storico, o con tardive eccezioni quali Verga, Svevo, Gadda);
-- la lontananza della filosofia italiana dalla tradizione di filosofia analitica e di filosofia del linguaggio che, invece, in Inghilterra, Germania e Stati Uniti nasceva dalla riflessione sugli sviluppi e i limiti delle scienze.
In una situazione del genere era inevitabile che i tentativi generosi di Aldani, Viano e altri rimanessero testimonianze isolate di un lavoro di Sisifo.
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