Io e Magni ci guardammo. Capii quel che pensava: Crisolora era impazzito.

- Portaci da Ribicchini, - esclamai. Giuseppe mi guardò come inebetito, poi il suo volto s'illuminò, e scoppiò a ridere, latrando una risata sgangherata; riuscì appena a dire, tra un accesso di risa e l'altro:

- Portarti da Ribicchini! Ma certo! Come no? Portarti da Ribicchini! Ma subito, subito!

Lo schiaffeggiai, ed ero quasi felice di poterlo fare. Era un modo per scaricare il nervosismo, la paura, la rabbia. Mi fermarono Magni e un altro. Giuseppe scivolò a sedere sul tronco di un faggio caduto, ormai reso levigato dagli anni, con i fiocchi di neve che s'impigliavano tra i suoi capelli ricci e neri.

- Andiamo da Ribicchini, - ripetei, con calma. Non so perché, mi pareva l'unica cosa da fare, in quel momento.

- Non è meglio aspettare Matullo? - chiese Magni.

- No, cazzo, magari quello è ancora vivo e ha bisogno d'aiuto, che ne sai? - ribattei. Non che fosse un gran ragionamento, ma fece il suo effetto. Purtroppo. Ora so che non ero io a parlare e agire, ma il destino mio e di Giuseppe che s'imponeva attraverso di me.

Ricordo che tirammo su quel disgraziato; mi colpì la sua leggerezza, segno di una magrezza insospettabile ed eccessiva. Ci avviammo subito, senza dire niente agli altri che ci guardavano; lui era al centro, io e Magni ai lati come due carabinieri d'altri tempi, con quegli inutili fucili a tracolla. Il resto della squadra restò attorno al fuoco, in attesa di Matullo.

Avanzammo salendo nel bosco che a mano a mano si faceva sempre più fitto. Lassù il terreno era già tutto bianco, il che contribuiva a farci sentire l'irrealtà della situazione. Quello che non posso dimenticare, più di tutto, è il modo in cui la voce di Giuseppe risuonava come smorzata in quel silenzio ovattato, tra i tronchi grigi e solenni, sul terreno candido di neve.

- Sono anni che li vedo, - diceva Giuseppe, col tono di uno che si confessa, - all'inizio erano sogni. Una volta ogni due o tre mesi. Poi sono diventati più frequenti. Erano così realistici... così dettagliati... ne facevo ogni settimana, poi ogni notte. Mi lasciavano spossato, come se invece di dormire avessi corso per ore. Poi ho cominciato a vederli di giorno. Erano le stesse cose dei sogni, ma le vedevo da sveglio. Non uscivo più di casa, per paura che mi succedesse davanti ad altra gente. Ma non erano allucinazioni, avevano un filo logico, un senso, Cristo! Erano veri!

Disse quella parola come se fosse un'oscenità; pareva che per pronunciarla avesse fatto uno sforzo.

- Sono italiani. Combattono su queste montagne contro altri italiani. E' una guerra civile. Non c'è pietà; non fanno prigionieri. Torturano, uccidono. Lo sapete che cazzo vuol dire vedere queste cose tutte le notti, ogni notte, poi pure di giorno, vedere sempre queste montagne, questa neve...

"Poi mi fanno partire per il militare. Io ero, contento, capite? Contento, ma pensate, uno che parte per la naia ed è felice. Pensavo che ne so, che cambiando aria, andando in un altro posto, sarebbe cambiato tutto. Ed era vero... a Orvieto non ho avuto più sogni né visioni. Allora mi sono illuso che era finito tutto, ci ho creduto, ero felice, povero coglione che sono stato. Poi mi mandano al battaglione, destinazione L'Aquila. Per me andava benissimo, sempre più lontano da casa, dalle visioni...

"Ma quando siamo arrivati alla stazione mi è cascato il mondo addosso... questo e quell'altro. Io sapevo già com'era L'Aquila, sapevo già com'era l'Abruzzo, anche se qui non c'ero mai stato. Sapevo già tutto. Conoscevo il battaglione, la caserma, ho riconosciuto subito i carri armati, li avevo già visti tirare cannonate sulla caserma degli Alpini... avevo visto il Comando distrutto, bombardato dall'aviazione, i militari per le strade dell'Aquila... ho visto i nostri carri con delle insegne strane, civili armati che svuotavano le armerie...