La prima volta che provai a intervistare Giuseppe Lippi, nel 1995, mi tremavano le gambe. Doveva essere solo un'intervista telefonica, ma per me Lippi era un mostro sacro, l'incarnazione presente del mio passato di ragazzina innamorata dei Millemondi Estate. E me l'immaginavo un po' come una specie di imprenditore impettito, tutto giacca, cravatta e erre moscia (sì, sono anche juventina). Purtroppo, quel giorno non lo trovai né in redazione né a casa sua, e fu dunque tutto tremito sprecato. Quando, anni dopo, ebbi la fortuna di conoscerlo di persona, non potei fare a meno di soprannominarlo Giuseppe L'hippy. Proprio come appare dalla rubrica Il pianeta della malora che tiene su questa rivista, il curatore di Urania è tutto fuorché il mostro di formalità che mi ero immaginata: ironico, dissacrante, sempre un po' fuori dalle righe... non saprei dire se sopra, sotto o di fianco, ma sicuramente fuori. Come in quest'intervista, che dopo anni la ragazzina innamorata dei Millemondi ormai cresciuta è riuscita finalmente a strappargli, stupendosi di quanto l'intervistato riuscisse ogni volta a usare le sue banalissime e prevedibilissime domande come trampolino di lancio per originali, acute e dissacranti risposte. Anche se le gambe non tremano più.
Che rapporto c'è tra fantascienza e politica?
Quando si fanno domande come questa penso che si voglia intendere: politica in senso costruttivo ed esplicito, "manifesto"; risponderò dunque che si tratta di un rapporto molto simile a quello che c'è tra fantascienza e storia. Come genere utopico, almeno nelle intenzioni, la sf tenta di descrivere un mondo futuro o le modificazioni del presente, e nel far questo attua non solo un tentativo dell'immaginazione, ma una vera e propria strategia politica. Si occupa cioè, più o meno direttamente, dei problemi connessi alle istituzioni umane e al loro evolversi, spesso a causa dell'influsso tecnologico.
Come cambia - se cambia - questo rapporto dopo la seconda guerra mondiale?
La guerra è stata uno spartiacque: ha finito di seppellire il vecchio mondo e quello nuovo, rappresentato dall'America, ha preso il sopravvento. Nel dopoguerra tutto è stato più "americano": anche il rapporto con la politica e il modo di immaginare alternative. La critica della società vittoriana che H.G. Wells aveva adombrato nella Macchina del tempo alla fine dell'Ottocento, e le grandi utopie negative europee come Il mondo nuovo e 1984 (che prefiguravano i pericoli della società di massa) hanno lasciato dopo di sé un vuoto intellettuale e morale che la fantascienza "di genere" non ha potuto colmare. Non mi sembra che dopo il 1950 siano state scritte utopie o distopie di pari forza, tranne forse Fahrenheit 451 che comunque è un romanzo visionario molto più che un testo basato su una linea di pensiero forte. La principale speranza utopica espressa dalla fantascienza americana rimane la conquista dello spazio, il diffondersi dell'umanità tra le stelle: ma questa è in fondo una visione mitica, palingenetica, e di conseguenza l'aspetto politico vi ha un ruolo secondario. Vi si parla di Imperi o Federazioni galattiche, ma salvo casi sporadici queste istituzioni vanno intese come archetipi anziché come progetti politici effettivi. E' il sogno di una civiltà tecnologica di massa che moltiplica se stessa all'infinito, in una sorta di specchio cosmico collettivo: la visione di risorse illimitate, mondi vergini e pastorali com'era una volta la frontiera americana, pericoli innumerevoli ma che è possibile affrontare. Tornando a una fantascienza di tipo terrestre, forse più consapevole del suo immediato impatto sociale, possiamo dire che il dopoguerra abbia visto l'affermarsi di una produzione - quella sociologica prima, la "new wave" degli anni di mezzo (Ballard, Le Guin, Spinrad, ecc.) e il cyberpunk poi - che ha come esclusivo punto di riferimento il mondo americano e le sue semplificazioni. Per semplificazioni intendo un generale livellamento del gusto e delle idee: Ballard è forse il solo che abbia cantato questo processo, trasformandolo in arte. Che la vecchia civiltà del pensiero e della scienza sia entrata nella bocca di Mammone ormai vi è poco dubbio, al punto che persino la critica di questo stato di cose non può più far capo a un grande modello intellettuale, ma muove dall'interno, è essa stessa un prodotto dell società tecnicistica, che coltiva un certo radicalismo puramente edonistico.
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