Quando le radici: Giuseppe O. Longo
Sono particolarmente lieto di presentare ai lettori di questa rubrica il racconto Rosa al confine di Giuseppe O...
Giuseppe O. Longo: leggi la presentazione di Vittorio Catani
Anche l'albergo era vecchio, ma aveva un'aria solida e confortevole, pavimenti di legno chiaro e lustro, pilastri grossi, pareti gialline. La sala da pranzo era vasta e deserta, subito si riempì delle loro voci che per un attimo incrinarono la luce radente del sole estenuata dalle tende. Poi il meriggio riprese il sopravvento, filtrando una luminosità rarefatta e gioiosa. Anche qui gli parve che vi fosse qualcosa di eccessivo, a cominciare dalla bellezza della cameriera, alta e sottile, che aspettava che tutti fossero seduti per prendere gli ordini.
Cominciarono a mangiare. I suoi vicini gli parlavano, lui rispondeva, a tratti s'infervorava, esponeva le sue idee con una certa convinzione, però si distraeva subito e tornava a guardare la cameriera che andava e veniva fra i tavoli, spingendo il carrello, controllando che tutto fosse a posto, sorridendo di un sorriso aperto ma lontano. Quel sorriso lo spingeva a bere più del solito e che l'albergo sorgesse accanto alla frontiera, che la cameriera venisse tutti i giorni a lavorare in quella zona vagamente pericolosa e comunque incerta, dove tutto sembrava dilatato e sospeso, che la sua stessa bellezza flessuosa e la sua eleganza non contassero nulla di fronte alla precarietà del confine e dell'albergo e della stessa cittadina, questo misto di perfezione e di rischio lo incitava a versarsi da bere, a proporre brindisi, in un'euforia che si esaltava di quella luminosità tripudiante e diffusa, dei capelli ariosi della ragazza rossi di hennè, del sapore delle vivande che masticava a lungo prima di inghiottire, del vino bianco che beveva a piccoli sorsi frequenti.
La loro tavola era in fondo alla sala, lungo una parete. Alle sue spalle, oltre quella parete, c'era il muretto con la rete metallica, poco più in là la vecchia stazione con i muri color salmone da poco rinfrescati, con i suoi fregi bianchi, e da quella stazione cominciava una distesa immensa di pianure e di fiumi e di montagne che arrivava nel cuore del continente, una distesa di terre cui collettivamente e per convenzione si dava un nome breve e sibilato, un nome in cui, a pronunciarlo, non c'era più traccia di quella stazione, né dei binari che arrugginivano al sole, né delle garitte alte contro il cielo sui tralicci, a intervalli regolari lungo tutto il confine.
* * *
Terminato il pranzo si alzò in preda allo stordimento, le tende bianchissime lo abbagliavano e dovette appoggiarsi al tavolo. I colleghi che uscivano lo superarono, lui si attardava perché gli sembrava di saper apprezzare meglio degli altri la bellezza della cameriera e con quell'indugio voleva farglielo capire. Sul grande tavolo di servizio notò un vassoio pieno di bicchierini di cioccolata, tozzi e minuscoli, ciascuno nella sua carta bianca increspata, piccoli recipienti da riempire fino all'orlo di un liquore tropicale che la cameriera gli indicava, sempre sorridendo e finalmente, ora che erano rimasti soli, guardandolo con occhi verdi e un po' obliqui, notò lui con sorpresa e quasi con inquietudine, come se il vasto Paese oltre il muretto avesse già cominciato a infiltrarsi in queste più miti regioni, minacciandole di invasione e di violenza, ma una violenza piena di fascino e di concentrazione, una violenza che prometteva piacere, tanto che non potè trattenersi, le prese una mano e, sempre guardandola, consapevole di essere ridicolo, le disse:
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