"Icone neuroniche sulle autostrade spinali". Questa immagine del sistema nervoso, dei "livelli spinali" erosi, messi a nudo, torna più di una volta in questo libro, particolarmente nelle frequenti liste apparentemente incongrue di oggetti reali o immaginari (martellanti cadavres exquisis di esplicita derivazione surrealista, come rivela lo stesso autore). Per me, questa scarnificazione del corpo, questo scambio fra interno ed esterno (che lo stesso Ballard sottolinea nella nota al passo che ho citato) è uno dei fili conduttori più significativi dell'opera. E ci consente di capire meglio anche la ragione della forma estrema, "sperimentale", che l'autore ha scelto per questo libro. Qui la scrittura frammentata, avvolta su se stessa, la ripetizione dello schema di base nei vari racconti, l'esplosione della linearità narrativa in una serie di frammenti volta a volta drammatici o ironici ma sempre densi, la continua alternanza di scansioni temporali rallentate fino all'immobilità e di incredibili accelerazioni (come fossero primi piani minuziosissimi e maniacali, e frenetici campi lunghi), questa scrittura che pare un nastro di Moebius e ci fa passare dalla psiche alla storia senza che ci accorgiamo di aver cambiato faccia della superficie, tutto questo insomma qui non è il risultato di una scelta interessante ma arbitraria: è una necessità. E' una corrispondenza inevitabile e sapientemente costruita tra "forma" e "contenuto". Lo stravolgimento della forma romanzo tradizionale, qui più ancora che nel romanzo postmoderno americano, è la traduzione stilistica di quella rottura fra tecnologia e forma, di quell'ipertrofia della tecnologia, in cui Ballard individua uno dei problemi centrali dell'era postindustriale. Forse perché l'interesse di Ballard si era appuntato fin dall'inizio sull'esplorazione dei rapporti fra ipertrofia tecnologica e modificazione delle strutture profonde della psiche, la sua scelta stilistica era sembrata a lungo meno radicale di altre. Ma i paradossi topologici di tanti suoi racconti degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, con l'accostamento sempre più insistito fra gli elementi del paesaggio urbano e la situazione psichica dei protagonisti, preparavano la strada a questa scrittura frattale e implosiva. Torniamo alle "icone neuroniche sulle autostrade spinali". La trascrizione diretta dell'immaginario sulle nostre reti nervose è ormai più che una metafora, lo stile è insieme l'uomo e la cosa (per superare un vecchio dilemma), perché i confini fra soggetto e oggetto svaniscono sempre più. Come in qualche caso anche Philip Dick, come più tardi il cinema di Cronenberg (che ci auguriamo possa presto terminare la sua riscrittura filmica di Crash), Ballard coglie un punto di crisi, uno snodo dell'immaginario, nella figura dell'interno del corpo (e in particolare del sistema nervoso) che si scambia e si confonde con l'esterno, con la realtà percepita dai nostri sensi. E' fin troppo evidente che questa è una metafora, quasi "letteralizzata" (ma non è questo uno dei procedimenti tipici della fantascienza?), del rapporto di scambio che l'uomo instaura col mondo, dell'insieme delle rappresentazioni mentali che di esso si fa e delle modificazioni che gli impone con la sua azione sull'ambiente. E questa metafora ci dice che questo rapporto di scambio si sta inceppando, che c'è forse un processo di ingolfamento, che questa ipertrofia dell'immaginario è dovuta a una realtà i cui criteri di definizione e di costruzione stanno cambiando, forse troppo velocemente: come aveva visto negli anni Trenta Lewis Mumford, e come avrebbe ripetuto negli anni Settanta e Ottanta Alvin Toffler (ma l'immagine del mondo che diventa un gigantesco sistema nervoso richiama anche la concezione dei media di Marshall McLuhan, un autore che Ballard non sembra amare troppo e che invece, almeno in una fase del suo pensiero, sembra più vicino di quanto non si pensi all'autore inglese).
Leggendo La mostra delle atrocità si capisce bene perché gli scrittori cyberpunk, Gibson in testa, abbiano considerato Ballard un precursore e un maestro. Io mi auguro anche che si capisca meglio la grandezza di questo scrittore, così complesso e fecondamente "incompleto" in ogni sua manifestazione. La mostra delle atrocità è un esempio splendente e lampante, denso ma anche (perché no?) divertente, di una scrittura autenticamente cosmopolita, che attinge la sua forza da uno sguardo impietoso e disincantato sulle tendenze unificanti della cultura planetaria: scrittura antropologica quante altre mai, perciò, di un'antropologia reale e non della finta antropologia del recupero delle "tradizioni".
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