Kennedy Space Center, Cape Canaveral (Florida). 26 luglio 2005: 10.39 a.m. ora locale, le 16.39 in Italia. Il countdown è agli sgoccioli. La sequenza che dai tempi della Luna è impressa nella mente degli uomini di tutto il pianeta, una sequenza impostasi nell'immaginario collettivo per il suo senso quasi soffocante di attesa, per il suo saper preannunciare, scandire l'arrivo di un momento epocale, echeggia come colpi di martello nella testa degli spettatori, uomini di tutto il pianeta collegati in videostreaming con il sito della NASA. A T-6.6, 6 secondi e 6 decimi prima dell'ora 0, i motori si accendono. Five, four, three... two... one... and liftoff! I razzi bruciano in una fiammata bianco-arancio subito assorbita nella nube ovattata dei gas di scarico. Il Discovery si alza verso il cielo con la sua mole pesante, ingombrante, fin troppo sgraziata, continuamente sospesa sulla cuspide di una spinta immane. Tutto va bene. Lo shuttle torna a volare. Ricomincia il viaggio verso le stelle.
2 minuti e 5 secondi dopo la partenza: separazione dei Solid Rocket Boosters. I paracadute si dispiegano per frenarne la caduta, per accompagnarne la discesa tra le acque dell'oceano, al largo della Florida, dove presto verranno ripescati per essere rimessi a nuovo, pronti a servire ancora il sogno dello spazio.
Ore 10.44 a.m, tempo della East Coast: il Discovery sta volando alla velocità di 6700 miglia orarie (quasi 11mila chilometri l'ora) nei cieli dell'Oceano Atlantico, 200 miglia da Cape Canaveral.
Due minuti più tardi lo shuttle è a 615 miglia dal Kennedy Space Center, a oltre 100mila metri di quota e la sua velocità è scesa a poco più di cinquemila chilometri orari. Tutto bene, come da programma.
8 minuti e 23 secondi: tanto è passato dalla partenza quando i motori si spengono, la spinta si arresta, l'External Tank si separa dal veicolo e lo shuttle compie senza intoppi il suo ingresso in orbita. Il Comandante Eileen Collins conferma lo shutdown alla base.
Si è svolto senza incidenti il ritorno allo spazio della navetta stars and stripes, prodotto di orgoglio yankee ripetutamente tradito dalla sorte e, forse, da una manutenzione resa sbrigativa e superficiale dai continui tagli alle spese. Dopo la tragedia del Columbia che il primo aprile 2003 costò la vita ai sette membri dell'equipaggio, dopo l'accanimento dei problemi tecnici che hanno costretto al rinvio della missione. L'ultima volta, il 13 luglio scorso, solo poche ore prima dell'accensione dei motori, quando tutto sembrava fatto. Poi un problema tecnico al serbatoio, un guasto ad un sensore del carburante, costrinsero il comando missione all'ultimo rinvio. Questa volta nessun imprevisto. Tutto regolare, finalmente. Tutto secondo copione, nella tradizione consolidata di una disciplina che come nessun'altra ha saputo solleticare i sogni (non solo di evasione) dell'umanità intera.
Si può ben comprendere l'entusiasmo che si è subito dipinto sui volti degli addetti ai lavori. Il 26 luglio 2005 non è stato rimesso in orbita solo lo shuttle, insieme ai suoi 7 membri d'equipaggio. Ieri è tornata nello spazio un'intera nazione, la stessa che quarant'anni fa era disposta a tassarsi mensilmente pur di avanzare sulla via dello spazio, quando il programma spaziale era il frutto di un sacrificio collettivo e, dall'altra parte della cortina di ferro, i sovietici sembravano sul punto di vincere la corsa. Ieri è stato rimesso in orbita il sogno: in questa prospettiva la valenza simbolica del lancio si spinge ben al di là del semplice gesto tecnico della perfezione balistica. Perché, come recita il sito internet della NASA dedicato alla missione, questo è solo "l'inizio del nuovo viaggio dell'America verso la Luna, Marte e oltre..."
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