Delos 32: Racconto: A.D.A.M. racconto di

Franco Clun

a.d.a.m.

L'alterazione delle forze magnetiche produsse un'oscillazione del pianeta sulla sua orbita. Il calore del sole fu deflesso, i venti furono imbrigliati e la crosta subì mutamenti che sarebbero dovuti essere irreversibili.

I manipolatori avevano previsto che su Righel le nebbie sarebbero scomparse, la grandine sarebbe stata meno sconvolgente e le mareggiate meno devastanti, e per il tempo necessario all'insediamento delle prime colonie umane fu così. Ma il loro piano minuzioso non aveva contemplato la ribellione della natura. Pochi mesi dopo l'inizio dell'attività di terraforming, forze spaventose e vendicative operarono sulla crosta del pianeta, torcendo e tendendo i grandi strati di roccia che a un certo punto cedettero scattando e scivolando in un attimo con la forza di centomila bombe. La devastazione si diffuse con velocità inimmaginabile su un arco lungo migliaia di chilometri, crepitando, tagliando e spaccando il suolo come uno sconfinato erpice. Gli immensi generatori di campo che avevano provocato l'alterazione magnetica, si schiantarono. Nell'oscurità, lampi rossastri guizzarono come lingue di serpente. Le montagne tremarono precipitando valanghe di terriccio su alberi e cespugli, radendoli al suolo. Il fondo del mare si sollevò e riabbassò con violenza inaudita mettendo in movimento milioni di tonnellate d'acqua: l'ariete di Dio fu scatenato sul pianeta.

Dopo di ché, tutto finì.

Dove un tempo s'innalzava superbo il monte, a protezione della Colonia, rimaneva uno spoglio pianoro dal quale si levava un'eruzione ininterrotta di cenere che si faceva grigioazzurra nell'ombra crescente della sua nube. Della città dei coloni non era rimasto più nulla.

Amos si fermò a riprendere fiato. Posò a terra lo zaino con l'attrezzatura e inspirò profondamente. L'aria fredda che entrò nel naso riempiendogli i polmoni aveva ancora un sapore lievemente metallico, ma fu piacevole respirare senza l'ausilio del casco. Inspirò un'altra volta. Ai piedi del pendio scintillavano i tetti della città, alle sue spalle il monte Einstein saliva ripidamente; la foresta era muta e un cupo senso d'oppressione gravava su tutto.

Per quella giornata l'attività di prospezione geologica poteva dirsi terminata. Poco lontano il tunnel del rifugio di rilevazione, il Nido, s'apriva come una bocca muta e spalancata.

Cominciò con un sibilo lieve, alto sopra le nubi, che dopo pochi istanti si trasformò in un ruggito da far tremare la terra. Amos non si rese neppure conto di cosa stava accadendo. Prima d'essere raggiunto dalla cenere bruciante, scivolò in avanti e mentre seguitava a ruzzolare verso il basso la testa batté più volte e con violenza sulla pietra. Gli automatismi di sicurezza si chiusero protettivi dietro di lui, isolandolo dal resto del mondo. Sepolto sotto metri e metri di lava e lapilli, ebbe solo il tempo di formulare un pensiero prima di svenire: ormai era parte della montagna, quella montagna che, amava sempre dire, era parte di lui.

Il dolore era venuto improvviso, definitivo, e A.D.A.M. aveva compreso il significato di quella parola.

Ricordava che mentre era intento a verificare le condizioni per l'installazione della coltura idroponica gli strumenti erano impazziti, aggrediti da una miriade d'impulsi indecifrabili. All'improvviso aveva sentito un'immensa mano di ferro germirlo, cento mani dilaniarlo e strapparlo come un foglio di carta in centinaia di piccoli frammenti.

Poi aveva udito un richiamo, una richiesta d'aiuto.

Cercò di muoversi e maledisse il giorno in cui nella sua sintesi era stata incorporata la sindrome piacere-dolore. Nella storia dell'uomo era sempre esistito qualcosa d'automatico: congegni che affrontavano il fuoco, troppo caldo per lui; o il ghiaccio, troppo freddo; macchine che scavavano, volavano, si muovevano, pensavano sempre più in fretta, ma a volte neppure questo era sufficiente. Allora gli uomini avevano creato macchine a loro immagine e somiglianza, sempre più umane. A.D.A.M. aveva naso e bocca, ma non respirava né mangiava; poteva sopravvivere là dove la vita non esisteva o non poteva attecchire, quale uomo avrebbe fatto altrettanto? Non era altro che una creazione biochimica di tessuti sintetici, questo era A.D.A.M., ma aveva un'anima ed era dotato degli attributi d'autocoscienza. Il pensiero, la capacità di giudizio era ciò che lo differenziava dalle macchine della precedente generazione, che agli occhi degli umani ne faceva un droide superiore. A.D.A.M. giudicava la pretesa umanità come un elemento di destabilizzazione nei delicati meccanismi del suo cervello positronico. Ciò aveva sempre reso molto difficile obbedire agli ordini, che non erano più soltanto tali, ma potevano piacere o non piacere, essere giusti o stupidi.

Per questo doveva rispondere al richiamo: era stato programmato per farlo.

Il dolore, repentinamente com'era venuto, smise di tormentarlo.

A.D.A.M. si sentì più leggero ed ebbe l'impressione di librarsi nell'aria, di volare e di vedere il mondo dall'alto. Laggiù, accartocciato a terra, giaceva un corpo; un cammeo di carne spiccava sulla fronte, simbolo della stirpe dei droidi ultima generazione.

Capì all'improvviso: il corpo era il suo!

Sono morto. Morto! Ma non è possibile, osservò incredulo. Cosa significa tutto ciò? Forse che per un androide esiste una vita dopo la vita, che il mio essere può sopravvivere alla degenerazione del metallo e dei tessuti sintetici. C'è un premio, dunque, per una vita di fedeltà, esiste una ricompensa per tutto quello che ho sopportato a causa degli uomini, c'è un paradiso per gli androidi?

I segnali trasmessi dai circuiti lesionati lo travolsero con una serie d'informazioni: distruzione e dolore. La procedura diagnostica automatizzata l'avvertì che una parte del cervello positronico era stata danneggiata, questo spiegava le visioni e i pensieri venati di follia. Avrebbe dovuto capirlo subito, e nel momento in cui i dati venivano registrati, i pensieri privi di senso cominciarono a svanire, la coscienza a rientrare nel corpo di metallo e carne sintetica.

Nello stesso istante A.D.A.M. udì nuovamente la voce, ma soffocata, come filtrata da muri spessi metri e metri.

Uomo!

Per quanto rimase privo di sensi Amos non avrebbe saputo dirlo, si risvegliò a causa di un vago, fastidioso rumore: il ronzio del depuratore d'aria.

Cercò immediatamente d'aprire il portello del rifugio, ma senza successo. Immagini d'immense voragini che s'aprivano sulla superficie del pianeta riempivano ancora i suoi occhi, e lo sbigottimento cresceva nella sua testa dolorante.

L'unità di rilevazione magnetotermica in dotazione visualizzava una serie di dati sullo schermo fluorescente. Ammutolito dall'orrore, Amos batté qualche tasto sulla consolle per richiedere una scansione ingrandita del perimetro esterno. La verità si presentò ai suoi occhi in tutta la sua crudezza: era solo. Non una delle numerose telecamere esterne era ancora in funzione ma le analisi della composizione chimica dimostravano inequivocabilmente che nessun'altra forma di vita avrebbe potuto sopravvivere in superficie.

Era solo!

Chiamò. Urlò. Nessuno rispose.

Sul pianeta tutto e tutti erano scomparsi nell'olocausto che aveva divorato ogni cosa.

Nel rifugio, sotto metri e metri di devastazione, tutto era immobile come una fotografia. Il silenzio era così assoluto e incredibile che ad Amos parve d'avere gli orecchi tappati o d'avere perso l'udito. Tutti gli scoppi, i rombi che l'avevano frastornato s'erano spenti.

Amos era un uomo robusto, imprecò fra i denti, strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche e colpì con violenza la consolle. Un pianeta ridotto in cenere, centocinquanta coppie destinate a colonizzare Righel annientate, tutto ciò che gli era stato caro... scomparso! Sparita anche Giulia. Amos non l'aveva mai amata, ma l'elaboratore non aveva sbagliato quando l'aveva scelta per l'affiancamento, le loro affinità superavano notevolmente gli attriti. Giulia era stata una buona compagna. Non voleva pensare a lei. Meglio: lo voleva troppo, ma ci sarebbe stato un momento migliore per farlo, occorreva escogitare qualcosa per fare in modo che ci fossero altri momenti.

La perdita di Giulia era collegata in modo inestricabile al fallimento della missione. Come avevano potuto i tecnici sbagliare così? Li aveva avvertiti: le mappe geologiche avevano evidenziato inspiegabili anomalie nella conformazione stratigrafica, ma loro non avevano voluto ascoltarlo e avevano ritenuto irrilevanti le obiezioni, infondati i suoi timori. La Compagnia aveva già investito troppo denaro in quella Commessa.

Amos non sapeva per quanto tempo ancora l'equipaggiamento di rilevazione-comunicazione e le lampade che illuminavano la stanzetta avrebbero funzionato, né aveva conoscenze riguardo al funzionamento della la fonte d'energia sepolta nel ventre della montagna, era un geologo non un tecnico, ma che importanza poteva avere? A che serviva sopravvivere per pochi giorni, o mesi? Avrebbe potuto continuare a resistere come se avesse davanti tutta l'eternità. Avrebbe potuto fare progetti, cercare di forzare ancora la porta e mettersi a scavare per arrivare in superficie, ma questo non avrebbe cambiato l'ineluttabilità del suo destino: l'attendeva una lenta morte per soffocamento. C'era un'alternativa all'aspettare sbattendo gli occhi nella luce incolore e nutrendosi di cibi sintetici? La colonia era finita. Perché prolungare l'agonia?

Gli organi sensori non ricevevano altro che un fruscio e un lieve ronzio, ma il grido era stato chiaramente registrato. In condizioni normali i rilevatori sarebbero stati in grado di captare qualunque cosa esistente per un raggio di molti chilometri, ma la loro efficienza era ridotta al 38,4%, e il livello generale d'energia stava rapidamente scemando. A.D.A.M. sintonizzò i ricettori alla massima sensibilità e passò in rassegna tutte le bande.

Captò nuovamente la voce dell'uomo: proveniva da sud-ovest, ad una distanza approssimativa di sette chilometri.

Non poteva rifiutarsi d'obbedire: i tre principi erano stati instillati in ogni fibra del suo essere. Egli era vincolato dagli imperativi che prevalevano su tutte le altre direttive e il secondo comandamento sanciva che un robot doveva obbedire agli ordini impartiti da un essere umano.

Poteva, DOVEVA seguire la traccia di quel segnale.

Cercò d'alzarsi ma crollò in ginocchio. Il suo piede sinistro era ridotto a un groviglio di metallo fuso, carne sintetica e plasma. Aveva perduto anche un braccio, e quattro cavi ausiliari tranciati penzolavano inerti lungo il suo fianco. Con difficoltà riuscì a rimettersi in piedi.

Ad ogni faticoso movimento impalpabili sbuffi si levavano da terra e occludevano i sensori esterni.

La terra dilaniata non aveva conservato la polarità impostale dai Manipolatori e rendeva cieco il suo sistema d'orientamento; lì dove c'era stato il mare ora non si vedeva altro che una distesa di lava brunita e cenere.

Il crepuscolo si spense e il satellite sorse dietro i monti di lava. A.D.A.M. avanzò faticosamente costretto a muoversi con cautela, attento a non buttarsi sabbia nelle giunture ormai quasi senza protezione, insinuandosi nell'intrico di rovine, districandosi in un labirinto di travi dritte e curve, in una distesa di cenere nera e rugginosa e prestando la massima attenzione ai ricettori. L'uomo era vicino, molto vicino.

Quindici anni, pensò Amos, quindici lunghi anni in cui s'era preparato con pazienza e tenacia per essere uno dei colonizzatori, e tutto era destinato a finire alla prima missione. Era per questo che aveva lavorato tanto? A che era servito? Rovine immote, scorie percorse da crateri e asperità, e di tanto in tanto un ammasso roccioso, era tutto ciò che era rimasto. L'atmosfera era tornata a essere il concentrato di veleni che era prima della colonizzazione; questo era l'unico risultato: avevano fallito. E a lui cosa rimaneva? Non s'era mai ubriacato, non aveva mai rimorchiato una donna in un pessimo locale, imparato a nuotare, non s'era mai drogato, non aveva avuto figli... quante erano le cose che non aveva mai provato, quante erano le cose che avrebbe perso per sempre? Perché era inutile farsi illusioni: da lì non sarebbe mai uscito.

Udì un rumore.

Dubitò del suo orecchio, ma quando l'accostò alla parete si convinse: era un rumore continuo, anzi, un'agitazione più che un rumore, una specie di vago tramestio. Era salvo? Qualcuno era venuto a tirarlo fuori da quel buco? No, nulla poteva sopravvivere al cataclisma. La profonda paura, radicata in lui fin dall'infanzia, ritornò a tormentargli la mente: quel rumore era l'inconfondibile trepestio di ratti in marcia.

Ratti! I disinfestatori ne avevano garantito l'eliminazione, l'intero pianeta sarebbe dovuto essere sterilizzato da qualsiasi forma di vita, niente germi di malattie, niente parassiti, insetti, ratti... ma c'era quel rumore, ed egli aveva già avuto modo di valutare la misura della competenza dei tecnici: i primi coloni avevano subito un attacco delle creature che erano dotate di una primitiva intelligenza di tipo speculativo e sembravano non avere altro scopo che respingere gli invasori. Lo stesso Amos aveva dovuto staccare alcune di quelle bestie dal corpo di due coloni. Lo scempio compiuto gli aveva fatto rivoltare lo stomaco. Un intero pianeta era stato distrutto a causa dell'inettitudine dei tecnici. Forse i ratti erano riusciti a sfuggire alla caccia degli sterminatori rifugiandosi nel sottosuolo, proprio come lui stesso stava facendo, e il cataclisma li aveva indotti a uscire dalle tane.

I ratti di Righel erano esseri senza articolazioni con esoscheletri simili a corazze e una struttura dorsale ad arco che scaricava il peso su svariate paia di gambe. Potevano infilarsi in un buco non più grande di una moneta; salire muri come ci fossero degli scalini; nuotare per chilometri; scavare nel piombo, nei blocchi di plastacciaio con denti affilati come scalpelli, in grado d'esercitare una pressione di 1.700 chili per centimetro quadrato; sopravvivere dopo essere stati scaricati in un water, moltiplicarsi così rapidamente che in un anno una coppia poteva mettere al mondo persino 15.000 discendenti, cadere da un'altezza pari al quinto piano di un palazzo e sgattaiolare via illesi, e... divorare un essere umano se erano affamati.

Ironia del destino: quante volte sulla Terra Amos s'era ripetuto che i topi sarebbero stati gli unici a salvarsi da un olocausto, gli ultimi esseri a morire sul pianeta?

Ne aveva terrore.

Sollevò lo sguardo. Il ricordo gli cadde addosso come un'irrimediabile condanna: il rifugio era scomparso, le pareti grigie s'erano tinte di bianco e s'erano ritratte, trasformandosi in quelle più remote dello scantinato di zio Donato.

Quand'era bambino Amos aveva sempre temuto i morsi dei topi: s'infettavano e ci mettevano molto a guarire. Ma dover farsi dare un antisettico dal padre era ancora peggio: l'aspettava la punizione per essere di nuovo andato nello scantinato dello zio a veder partire le navi dei Colonizzatori. Papà lo batteva come se fosse un sacco di fieno. Amos ogni volta contava i colpi: cinque, dieci, quindici, venti. Il suo corpo diventava insensibile; ogni percossa aveva il peso dell'odio e del rancore. Sopportava pensando al futuro, a suo padre vecchio e impotente, e ad egli stesso giovane e vitale. Fantasticava su quel momento: non l'avrebbe picchiato, si sarebbe limitato a guardarlo in faccia e a ridere del suo dolore, senza fare altro. Non l'avrebbe mai perdonato, né dimenticato.

La maggior parte dei figli sono tormentati dal padre, Amos lo sapeva, dal padre o dal suo ricordo. Se il padre è un violento, il figlio sarà quasi certamente un violento; se è famoso, il figlio sarà intimorito e intimidito, se proibisce qualcosa, il figlio la farà. Amos era diventato un colonizzatore, a dispetto di quello che suo padre avrebbe voluto per lui. Qualche volta risentiva ancora la voce roca e cattiva rimproverarlo, una voce fatta per urlare, insultare e prevaricare, ma ormai non era più molto spesso.

Adesso i rumori provenivano dal soffitto. Amos si riscosse e fu costretto a infondersi coraggio: temeva che le mostruosità aspettassero solo il momento più propizio per calarsi nel rifugio e inghiottirlo per sempre.

Non ho paura, si disse, ho molte armi e le so usare.

Attese a lungo, con la mente lucida ma follemente ansiosa. Attese continuando ad ascoltare il rumore che aumentava, che assumeva a tratti un'intensità violenta.

Ogni minuto che passava era tormentato dal suono, dal sinistro zampettio di topi nelle intercapedini dei muri, e, per quanto Amos lottasse, non riusciva a liberarsi dalla morsa della paura che gli attanagliava la mente, suggerendogli visioni d'orribili ferite inferte da minuscoli denti.

Sentì di nuovo il rumore, più forte. Sentì dietro ai muri presenze in grado d'eclissare il lume della ragione. Ondate di terrore gli percorsero il corpo. Non riusciva più a respirare. Era la morte, inutile negarlo.

Gridò.

Parecchi metri sopra, una figura grigiobrunita s'affannava a scavare. Tonnellate di cenere bloccavano il portello del rifugio da dove proveniva la voce dell'uomo. A.D.A.M. doveva obbedire all'ordine, al richiamo.

Aveva smesso di piovere e sotto l'immenso scudo di ferro che era il cielo brillava un sole più gonfio, più caldo a causa dell'intensificarsi delle reazioni nucleari.

Con la fede di un bambino, pervaso da un'eccitazione elettrica e da selvaggia violenza, A.D.A.M. scavava con l'unico braccio rimastogli, ma era lento e faticoso allargare e puntellare il passaggio. Avrebbe voluto urlare: sono qui, sto arrivando! Ma il vocalizzatore era anch'esso rimasto danneggiato.

Non s'era mai reso conto di quanta amarezza e quanto risentimento covasse nei confronti del mondo. Erano stati loro a cambiare il pianeta, loro l'avevano distrutto e reso totalmente diverso da quello che era, loro la causa della ribellione. Il pianeta aveva rifiutato le nuove forme di vita, s'era servito delle loro stesse creazioni per distruggere e ricreare le vecchie condizioni, l'equilibrio esistente in precedenza. Nessuno poteva sostituirsi a Dio. La vita trionfava sempre e in ogni modo.

Ecco che i ratti venivano trascinando la loro coda luminosa a fare giustizia. Amos pensò che in quel rifugio non ci fosse nulla oltre la sofferenza e la paura, e una volta morto non sarebbe rimasto altro che cenere.

Esisteva una buona ragione per cui dalla Terra avrebbero dovuto inviare una spedizione di soccorso, ammesso che sapessero che era vivo? E supposto che l'avessero fatto, quanto tempo ci sarebbe voluto per giungere a Righel?

Urlò ancora, inutilmente.

I topi continuavano a precipitarsi contro le pareti rinforzate del rifugio.

Stanno arrivando, pensò ormai in preda al panico, ma non riusciranno ad avermi, riuscirò a fuggire, devo!

Le luci di strumentazione sfarfallarono, segno che qualcosa non andava nelle riserve d'energia. Sentiva la pressione sopra di lui, tonnellate e tonnellate di terra, e pregò in cuor suo che tutto finisse presto, qualunque cosa dovesse accadere.

I ratti erano vicini, così vicini!

Il pensiero che lo sfiorò non si concluse nemmeno nella sua mente: spalancando la bocca v'immerse a un tratto, fino in fondo alla gola, la canna della pistola, e premette il grilletto.

A.D.A.M. avvertì la detonazione quando era ormai riuscito ad aprirsi un varco abbastanza grande da permettergli d'aprire la porta del rifugio.

Con furia attaccò la parete di plastacciaio facendone volare grosse scaglie e strappandone via il metallo. I rilevatori l'avvertirono immediatamente che l'uomo era morto. Lo trovò riverso a terra, steso sul dorso, in un lago di sangue.

Fallito! Aveva fallito, la seconda direttiva era stata violata, ed era colpa sua. Se fosse stato più veloce non sarebbe accaduto. Per lui le porte del paradiso s'erano chiuse per sempre. Lanciò un muto urlo di rabbia e angoscia. Lui era nato per servire l'uomo, e l'uomo non esisteva più. Il sogno svaniva e non c'era più nulla a dargli un motivo e uno scopo vitale. Era stata una beffa sin dall'inizio.

Qualche stella brillava, dardeggiando fra i sedimenti trasportati dal vento sulla superficie del pianeta. Il mare morto distava solo pochi chilometri, A.D.A.M. poteva udirne lo sciabordio lento, denso. Pensò che lontano, fra quelle stelle, qualcuno stesse prendendo delle decisioni.

Una commissione d'inchiesta avrebbe assolto i tecnici della Compagnia e definito "Atti di Dio", le circostanze che avevano causato il fallimento del progetto di terraforming su Righel.

Gli amministratori avrebbero avuto i loro problemi per mettere una pezza all'enorme buco che s'era aperto nelle casse della Compagnia e avrebbero ritenuto antieconomico approntare una nuova spedizione. Righel sarebbe stato marchiato come pianeta con condizioni climatiche e geofisiche avverse alla colonizzazione, e il suo nome cancellato dalle mappe di navigazione e da qualsiasi rotta commerciale.

A.D.A.M. camminò fino a che non giunse al bagnasciuga, spinto da un impulso ancora più forte di quelli dettati dalle tre direttive primarie. Le malfunzioni dovevano essersi aggravate perché fu come se una voce risuonasse nel suo cervello e gli ordinasse di farlo. Non poteva evitare d'obbedire. L'energia era quasi esaurita, sfuggita dalle ferite del corpo sintetico, e la mente era affollata di pensieri incoerenti: "Ho fallito, non esiste paradiso per chi fallisce, non esiste un dio per un androide".

Rabbrividì, l'energia residua non riuscì più a sorreggere le su gambe e con un fremito s'accasciò nell'acqua sollevando alti spruzzi. Qualcosa accadde: tutte le energie l'abbandonarono di colpo, tutti i circuiti saltarono in uno sfrigolio di scintille, le luci guizzanti nei suoi occhi si spensero e una scarica elettrica attraversò la piastra pettorale trasmettendosi all'acqua.

Poco prima che le tenebre cominciassero a invadere la sua coscienza e che lo spirito abbandonasse il corpo di metallo, A.D.A.M. ebbe la netta sensazione di vedere un bagliore, come una luce alla fine di una galleria. Non provò dolore, bensì una gran sensazione di pace che non se ne andò neppure quando la luce cominciò ad affievolirsi.

Se sull'intero pianeta fosse rimasto qualcuno in grado d'udire le ultime parole che A.D.A.M. pronunciò in quel momento, avrebbe inteso formulare una domanda: "Tu sei Dio?".

Giacque così per tutti gli anni che seguirono, fino a che le onde di quell'oceano morto non dissolsero il suo corpo di metallo.

In acqua il sussulto elettrico di A.D.A.M. unì in catene le molecole degli aminoacidi, che costituiscono le proteine, e quelle dei nucleotidi, con cui si strutturano i geni. Millenni d'interazioni chimiche, di mutazioni metaboliche fecero sì che queste catene s'intrecciassero a costituire le proteine e assorbissero molecole per accrescere sé stesse. Queste, lentamente, cominciarono a generare ossigeno, la cui presenza rivoluzionò i processi vitali del pianeta morto.

Non fu un processo rapido, cose del genere assumevano un certo rilievo anche su scala cosmica. Nei tre miliardi d'anni che seguirono, il codice genetico di un primitivo organismo unicellulare di tipo batterico fu replicato in tutte le cellule esistenti nel pianeta, che s'unirono e divennero complessi organismi multicellulari. Il codice fu trasmesso alle cellule nucleate, alle forme di vita pluricellulari, ai vertebrati.

L'uomo non è che un parassita dei pianeti che colonizza, un essere che vive della vita, e i pianeti hanno sempre lottato contro di lui, una lotta per l'esistenza.

Righel era tornato indietro, un netto ritorno a prima dell'inizio, fino in fondo alla scala evolutiva, alla condizione metano e ammoniaca, vapore acqueo e idrogeno. Ma per sua natura ogni pianeta è condannato ad avere parassiti e con quella sorta di diluvio universale Righel aveva preparato il terreno per un'altra coltura.

Esseri primitivi tornavano a popolare le acque dei mari di Righel, essi sarebbero cresciuti e si sarebbero evoluti, sarebbero tornati alla terraferma, e la vita avrebbe ricominciato il suo ciclo.

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