L'esordio alla regia di Matt Dillon avviene con un thriller ambientato in Cambogia dove - nei panni di un malavitoso americano - l'ex Rusty il selvaggio è alle prese con un mondo di corruzione e di mistero, in cui incontra colui che si scopre essere suo padre interpretato da James Caan. Tra europei scappati in estremo oriente per sfuggire al proprio passato e uomini alla ricerca di un nuovo futuro pieno di possibilità il più delle volti immorali o illegali, City of ghosts soffre di un che di prevedibile che sembra seguire tutti i cliché di un certo tipo di cinema collegato agli espatriati di tutte le epoche. Mentre il Dillon regista segue uno stile di ripresa da cineasta indipendente con la macchina che sembra volere imitare i movimenti delle telecamere digitali, l'attore Dillon tra uno strabuzzamento d'occhi e l'altro, si lancia in un'interpretazione incolore ed inespressiva dove tutti sembrano essere un po' sopra le righe. Tranne la solita Natascha McElhone che - dopo Solaris - sembra avere finito di affossare una carriera che aveva alle spalle un film come Truman Show in virtù di personaggi vuoti e privi di fascino. Peccato: l'esotismo di City of ghosts soffre del grande difetto di essere deja vu, ma soprattutto privo di mordente e di vero fascino.