Sono nato durante l'epoca del programma Apollo e della "conquista" della luna. Negli anni di 2001 Odissea nello spazio e dei viaggi delle sonde Viking e Voyager. Lo spazio ha segnato la mia vita da lontano. Come il capitano Picard di Star Trek nella raffigurazione iconica che si dà della sua gioventù, ho trascorso molte notti a guardare le stelle, perdendomi come molti altri prima e dopo di me, nella quiete notturna dello spazio. In un certo senso è quello che continuo a fare oggi, ma l'esplorazione del sistema hollywoodiano di astri e meteore, è soltanto un'alternativa adulta e di ripiego al sogno di diventare - un giorno - un astronauta. Come tutti i bambini che - spesso - ho sentito definire "scemi" da quelli che a otto anni sognavano un avvenire fatto di soldi e pranzi domenicali, ho immaginato - un giorno - di trovarmi anche io lassù tra le stelle. L'universo riempiva i miei temi alle elementari, così come ricordo con gioia enorme, quando la Viking raggiunse Marte. La Rai, per festeggiare, mandò in onda una serie di film di fantascienza: tra gli altri Il villaggio dei dannati e La cosa dell'altro mondo e io - eccezionalmente - ebbi il permesso di restare in piedi a vedere quei film in bianco e nero sul televisore a sedici pollici. Erano gli originali del 1960 e del 1951 e non i remakes di John Carpenter.
E' inutile dire cosa abbia provato con film e telefilm quali Spazio 1999, Star Trek, U.F.O. e la vecchissima serie Orion. Il lavoro che mi sono scelto deriva direttamente da quella passione, mentre ricordo con disperazione come mi sono sentito quando esplose il Challenger diciassette anni fa. Mi sembrava - al liceo stavolta - che il futuro sognato per anni, cui mi sentivo inesorabilmente sempre più vicino, stesse, invece, allontanandosi. Lasciando l'era dell'edonismo reaganiano, per qualcosa di molto diverso: quegli anni novanta fatti di recessione, guerre, sconvolgimenti politici.

Oggi che - addirittura - il Columbia, il primo degli Shuttles, è esploso non posso che dirmi distrutto anche io. Come tutti. La conquista dello spazio, di quel luogo fisico dove "nessuno è mai andato prima" rappresenta l'ultima chimera. Il primo sogno di un bambino qualsiasi nato alla fine degli anni Sessanta e - soprattutto - una delle priorità di chiunque ami la fantascienza. La conoscenza del cosmo, salpare verso lo spazio alla volta di quei mondi lontanissimi sognati con romanzi e film, sta diventando un'utopia. L'invio di una missione su Marte (possibilità celebrata da due film così, così), la creazione di stazioni orbitanti intorno alla Terra erano tutte ipotesi subordinate ad un programma di viaggio degli Shuttles che non solo funzionasse, ma che riavvicinasse lo spirito delle persone a quell'entusiasmo tiepido nonostante l'impegno della Nasa a promuovere il suo lavoro attraverso film come Apollo 13, Space Cowboys e soprattutto la miniserie televisiva From the Earth to the Moon.

Quel sogno si è frantumato come il Columbia è andato in pezzi su un'area enorme tra Texas e Florida.

In un mondo lacerato dalle guerre, dalla politica, dalla fame, dall'inquinamento, dalla paura del terrorismo, il sogno delle stelle rappresentava idealmente quella tensione che serve a renderci tutti migliori. La sua esplosione - con tutte le polemiche che ne deriveranno - ci riporta indietro in un'era prespaziale, facendoci domandare - ancora una volta - che cosa se ne fanno, se ce l'hanno poi davvero, gli americani di tutte quelle tecnologie aliene trovate a Roswell.

Oggi il sogno dello spazio, l'entusiasmo di staccare l'ombra dalla Terra per vedere continuare l'avventura umana "più lontano delle stelle", resta di rimanere l'ennesima utopia della mia generazione.

Probabilmente non l'ultima, ma sicuramente quella cui in molti tenevamo di più.