Indossava la giacca del Quinto Regimiento – lui, anarchico – nella difesa a oltranza di Madrid repubblicana («No pasarán!»), durante la Guerra di Spagna, lunghi mesi fino al marzo 1939, sfuggendo poi per un soffio alla feroz matanza, alla vendetta sanguinaria del dittatore Franco.

A fine gennaio 1944 sgambava nella neve alta accanto a Filippo Beltrami, quando, con la sua banda partigiana, il Capitano aveva lasciato dietro di sé Cireggio e Quarna, abbandonato l’Alpe Camasca e toccato Strona, scavalcato la montagna alla bocchetta di Ravinella per giungere, dopo aver costeggiato il lago, in vista della Val d’Ossola e scendere a Megolo («Più vicina sarà la meta, più dura sarà la lotta»), ove avrebbe trovato la morte in battaglia.
All’Ansaldo Meccanico di Sampierdarena, nel giugno di quello stesso anno, distribuiva stampa clandestina («Morte ai tedeschi e ai traditori fascisti!») ed esortava allo sciopero, per dare inizio all’insurrezione e mettere fine alla guerra; non era di turno nel giorno in cui i nazifascisti irrompevano nella fabbrica e rastrellavano decine di operai, che a distanza di pochi giorni avrebbero deportato a Mauthausen.
Ed era accanto a Francesc Boix i Campo all’entrata del Palazzo di Giustizia di Norimberga, nel gennaio 1946, quando il giovane repubblicano era chiamato a testimoniare i crimini contro l’umanità compiuti dalle SS proprio a Mauthausen, ove era stato internato («il nostro destino è di essere annientati attraverso il lavoro»), trattenendo l’emozione nell’istante in cui il fotografo catalano aveva riconosciuto e indicato Albert Speer, architetto del Führer e ministro agli armamenti e alla produzione bellica del Terzo Reich.
Viaggiando nello spazio-tempo ha attraversato la storia e la geografia del Novecento (e oltre), sempre al fianco di chi lotta per un mondo nuovo, per un mondo migliore, per un altro mondo: «a volte – come il gitano di Massimo Carlotto – canticchia una vecchia canzone; parla di un cuore ribelle e del mondo: dice che è nostro, che è la nostra patria».
È Domenico Gallo: fisico, fantascientista, libertario. PHD in bio-ingegneria e studioso di Philip Dick, giovanissimo redattore della storica rivista di critica marx/z/iana Un’Ambigua Utopia e autore di una monografia su Albert Einstein, narratore e saggista, affine alla sensibilità cyberpunk e appassionato di storia contemporanea, di anarchismo e Resistenza, in particolare, tanto da pubblicare due raccolte di racconti partigiani… Quante altre vite (segrete) ha vissuto e vive Nico Gallo? Molteplici, senza dubbio. Un’attività proteiforme e intensa, che in passato poco si è curata delle sedi editoriali dei propri scritti d’invenzione, che qui, per la prima volta, si presentano in una antologia ragionata e in una redazione nuova, dopo essere stati sottoposti a un’accurata revisione da parte dell’autore, iscritto a pieno titolo nella Fantascienza Resistente sia per l’antifascismo sia per la consapevolezza che ‘nessuno si salva da solo’.
Diciotto racconti che si inarcano per quasi trentacinque anni, dalla prima giovinezza alla maturità, dal 1981 al 2015 (ed è un peccato che nell’ultimo decennio Gallo non abbia scritto narrativa), a suo tempo ospitati da prestigiose riviste e fanzine effimere, case editrici (alcune minuscole, altre di rilievo) e pubblicazioni di settore, antologie a tema e singoli ebook. Diciotto racconti di ispirazione differente, tutti però connotati da una prosa serrata, talvolta sincopata (come nelle prove di ispirazione cyberpunk), capace di descrizioni memorabili (del paesaggio, dell’ambiente urbano, dei personaggi), sempre elegante anche quando il contenuto vira alla pornografia (soft e non solo). Emerge, nella scrittura di Nico Gallo, la ricerca puntuale di ogni lemma (forzato talvolta al limite dell’espressività), il gusto per la parola che suona (e che connota, in modo ardito e non banale), la musicalità del periodare (che richiama il jazz contemporaneo, gli amati John Coltrane e Miles Davis, per esempio, e la lista potrebbe continuare e continuare…).
I testi di Gallo si segnalano, anche, per ciò che esplicitano e per ciò che tacciono, lasciando l’intuizione alla lettrice, al lettore, lasciando che sia questo, questa, a istituire relazioni e consequenzialità; scelta precisa è non dire, illustrare, analizzare: la conoscenza, infatti, non può che avvenire per lampi di illuminazione, per consapevole volontà, richiede l’impegno della partecipazione e dell’intelligenza personale.
Impossibile, in questa sede, rendere ragione di ciascuno dei diciotto racconti (ci vogliono due tomi per contenerli): attenta a non turbare con improvvide anticipazioni il gusto della scoperta in chi legge, mi soffermerò dunque sui testi che ritengo belli, compiuti in sé stessi, indimenticabili. E, davvero, non sono pochi…
L’autore racconta sempre sé stesso («Madame Bovary c’est moi»), è cosa nota; in alcune narrazioni, tuttavia, l’autobiografia traspare maggiormente in filigrana: per Gallo questo avviene nei racconti giovanili, nei quali dietro la vicenda individuale il protagonista che dice io si pone in una dimensione collettiva, generazionale. Così è per Gli spazi di Hilbert (scritto nel 1981), Liebe macht frei, L’ultima cordata, È questa vita un lampo (pubblicati rispettivamente nel 1990, 1991, 1994; di qui in avanti, ove non altrimenti specificato, la datazione è quella della stampa).
Dal primo emergono il dolore e la perdita, il passaggio dalla promessa dell’alba alla notte senza fine, dagli anni Settanta agli anni Ottanta, quando tutto cambiò. La stagione dei movimenti assassinata dalle scorie radioattive del riflusso, dell’edonismo modaiolo, del disimpegno eletto a religione, quando «una società che sia prospera e programmata non può tollerare l’esistenza di individui inutili». Nico Gallo lo percepisce in tempo reale, nel 1981, studente di fisica che si riflette nel protagonista Herbert, e già consapevole che la fantascienza darà alla narrazione l’efficacia dirompente che il realismo spegnerebbe. Il nostro destino nell’orrore di Heart of darkness, in un testo capace di rappresentare la sconfitta di chi ha perduto tutto, anche sé stesso, aperto da una citazione esplicita dalla storia orale del ‘maledetto’ Settantasette, dal volume Una sparatoria tranquilla, del 1997, lo stesso anno in cui Gallo riprende il racconto per darlo alle stampe.

Liebe macht frei è il rovesciamento del monito posto all’ingresso dei campi di sterminio nazisti, di Dachau e Auschwitz: un amore lontano, mai pienamente vissuto o non vissuto quanto si sarebbe voluto, nel presente ‘ristretto’ di un penitenziario di massima sicurezza, ove si trova il protagonista senza nome, ragionevolmente colpevole di terrorismo o eversione, la domenica trascorsa in solitudine (quando «i rumori del carcere sono ovattati») a pensare a lei, ragionevolmente morta per overdose, in un vicolo desolato della città vecchia, dove il sole non dà i suoi raggi. Eppure, la voce narrante (che si apparenta a uno degli Invisibili del romanzo di Nanni Balestrini e come questi è rimosso e silenziato) con la forza dell’immaginazione sa attraversare le mura scrostate della prigione – al pari dei grandi reclusi della letteratura Jack London e Eduard Limonov – grazie al pensiero di lei, presenza immensa al di là della morte e del lutto.
Un irresistibile amore per la montagna, da parte del giovane Nico Gallo, in un racconto struggente che data al 1991, alcuni anni prima di Nelle terre estreme di Jon Krakauer (1996), molti anni prima di Le otto montagne di Paolo Cognetti (2017) e dei film di successo che li hanno seguiti: ecco L’ultima cordata, tanto bello da dare il titolo al primo volume di questa antologia. «Quando nacqui, per la montagna iniziava la morte lenta, cessava, semplicemente, di esistere»: a breve distanza da Čhernobyl’, la consapevolezza (scientifica in primis) del problema rimosso delle scorie non smaltibili e l’intuizione che lo splendore del mondo sarà guastato senza rimedio dall’ottusità umana. La montagna è il luogo ove è possibile guardare le stelle più da vicino (la montagna tornata solitaria, «i cieli tersi e il freddo, i vecchi rifugi con il libro delle ascensioni, le corde che pendono nel vuoto, i chiodi battuti nelle fessure con le asole schiacciate»), lontani dal vendere e comprare delle metropoli contemporanee, ove «tutti avevano soldi e li spendevano in maniera frenetica», ove la morte avviene in solitudine e in modo asettico, senza traccia e memoria. Meglio, allora, andarsene «senza avvisare», con un gesto che dia significato all’esistenza, che restituisca dignità, che esprima il senso di aver vissuto veramente. Chi legge segue il protagonista e l’amico Maurilio – orfani dei padri ma capaci di dare forma e sostanza al sogno dei padri – in un percorso tra montagne e ghiacciai di una Valle d’Aosta remota e violata nel profondo, bellissima, in grado di dare pienezza e pace: Pré Saint Didier e Courmayeur, il Monte Bianco e le Grandes Jorasses, il Rifugio Torino e la Capanna del Leschaux, fino alla Punta Walker, settant’anni dopo (il testo è ambientato nel 2008) l’impresa delle leggendarie guide alpine Riccardo Cassin, Ugo Tizzoni e Gino Esposito, di cui forse ancora si incontrano i chiodi piantati nella parete, lungo un tracciato ripercorso con minuzioso puntiglio e rinnovato amore.
È questa vita un lampo: sì, lo è, perché tra la fine dei Settanta e l’inizio dei Novanta non scorrono soltanto quindici anni: in mezzo ci sono il naufragio della speranza, i movimenti sconfitti (e non sarà l’ultima volta), gli ideali accartocciati, le amiche e gli amici perduti, la ghiacciaia degli Ottanta («Abbiamo perso, non potevamo vincere, e forse è stato addirittura meglio… e basta»). La voce narrante Nico si interroga sul destino che nel flusso delle possibilità finisce per toccare in sorte a ognuno, ognuna di noi. Il tempo che è passato lampeggia nella tristezza del presente e nei mutati gusti musicali, ritorna nei ricordi che costellano la narrazione, appare nel clochard disteso immobile fuori dalla Stazione Centrale, nel paesaggio urbano straniato, nel racconto impietoso di chi non conosce salvezza.
L’ultimo decennio del secolo scorso dà slancio alla distopia senza ritorno e, nel contempo, afferma in Italia il cyberpunk: William Gibson e Bruce Sterling (e la grande Pat Cadigan), il Giappone moderno e la megalopoli artificiale (e la tecnologia informatica che diviene parte del corpo umano attraverso le connessioni neurali)… Input che Nico Gallo declina attraverso vie differenti: non solo nel ciclo di Mascara Snake (di cui si dirà), ma anche in alcuni racconti dati alle stampe tra il 1994 e il 2001.
La consapevolezza di Ibrahim Abdullah (1994, prima versione nel 1991 col titolo Go to label zero) suggerisce una società orwelliana in un ambiente inquinato senza rimedio: «Pioveva, dal cielo striato di ocra scendeva una pioggia molle e sporca; cessava raramente, come il caldo umido, la luminescenza diffusa e la folla. Sembrava che la città alitasse di continuo da una bocca enorme e malsana. Infilato nella calca scese negli abissi della città fino al marciapiede del metrò». Un protagonista qualunque – osservato dall’esterno – scopre per caso l’anello che non tiene, il varco che apre non all’autenticità ma al disvelamento della finzione, nello scenario di un rituale che si ripete ogni giorno uguale a sé stesso, al quale non è possibile sfuggire, nel quale non c’è scelta vera, soltanto obbedienza succube.
Buona fortuna, vecchio (1996) testimonia il lungo amore per Albert Einstein che attraversa l’opera di Nico Gallo (autore di un saggio intitolato al grande fisico, Il ribelle del pensiero, 2016). Ecco, allora, Einstein riportato alla vita, in una serie di sequenze cinematografiche incalzanti (a partire dalla passeggiata newyorkese), per ragioni di marketing, non di scienza, affinché possa essere testimonial di una major televisiva. Questo non è il tempo di Einstein («il fatto di essere inaspettatamente vivo non lo rendeva felice»), e forse neppure il nostro: meglio che i morti non risorgano, allora.
Apre alla stagione dei capolavori assoluti, che data dalla fine degli anni Novanta, Il riflesso nero del vinile (1998), in sintonia con la sensibilità cyberpunk di Gallo, nella migliore tradizione di Pat Cadigan (non a caso pubblicata in quegli anni da Shake Edizioni, cui l’autore è vicino) e ancora memore di Philip Dick: un testo in cui passato, presente, futuro si uniscono in un flusso temporale che determina corti circuiti folgoranti. Il protagonista, Valerian (nome che ritorna nell’opera di Nico Gallo, declinato al femminile o al maschile), è uomo dall’identità plurima e frantumata, suo malgrado: cancellazione del passato e condizionamento cerebrale innervano una vicenda che intreccia multinazionali dell’agricoltura, vocazione gesuitica (impossibile non ricordare Mission di Roland Joffé) e rivolta campesina, in cui il massacro di Srebrenica, le cariche della polizia sui manifestanti a Bangalore e la durissima repressione nel Chiapas zapatista sono soltanto effetti collaterali nel piano di dominio globale dei poteri di sempre. Equilibrato nella struttura (gli eccessi talvolta cari all’autore sono qui contenuti), struggente nella rappresentazione dell’io dimidiato, come sempre riuscitissimo nella serie di sequenze cinematografiche dell’azione, il racconto emoziona e ammonisce alla resistenza, possibile, sempre. E una volta tanto la presenza femminile, Nora, è qualcosa in più di una groupie (fino a che punto un cliché mutuato dal noir?): letteralmente indimenticabili i suoi occhi neri, che «catturavano la luce ed emettevano un tenue brillio», come «un vecchio disco di vinile della Savoy… un 33 giri». La colonna sonora sottesa al racconto è sontuosa e vibrante, evocata attraverso le atmosfere dello Zero Bar (un locale in una località imprecisata ove si trovano a suonare grandi del jazz del passato e del presente, quasi in una sospensione temporale, e non c’è reset che tenga, «nessuno è prevedibile come un appassionato di jazz»), scandita attraverso il ritmo della prosa, in cui significato e significante, mai scontati, hanno pari importanza e dignità. Eccone un esempio: «Accese il motore e il tergicristallo rese alla notte il suo colore, quello delle luci tremolanti, dei riflessi, degli scotomi, del blu, del nero, del grigio, delle lame di luce che tagliano il selciato con rombi e trapezi. I passanti erano pochi, isolati l’uno dall’altro, rasentavano i muri per difendersi dagli scrosci di pioggia, confondendosi con le ombre». Il suono delle parole è musica, le parole sono reinventate in funzione espressiva, connotano atmosfere e luoghi, ne ridisegnano la geografia mescolando sensazioni afferenti ai cinque sensi (in particolare vista, udito, olfatto). La lettura del racconto è un’esperienza sinestetica… cyberpunk.
E in una rinnovata atmosfera cyberpunk, due impulsi in conflitto (il pensiero new age e l’azione di bonifica) si risolvono invece nella banalità di una vicenda di tradimento e abbandono nel brevissimo racconto I sogni di Mr. Lars (2001).

Tre testi, tutti di lunghezza importante (tecnicamente novelette, secondo le categorie dell’Hugo e del Nebula Award), costituiscono la trilogia di Mascara Snake: I battitori del crepuscolo (1995), che consta di due parti, Carcinoma Tango e Silicon deliverance (la terza, Flesh, non è stata completata); Front End Dance (1999); Negras Tormentas (2011). Protagonista è, appunto, Mascara Snake: non soltanto il nome di un componente la Magic Band di Captain Beefheart, forse anche un richiamo all’iconico personaggio del memorabile 1997. Fuga da New York di John Carpenter (1981), con il quale l’antieroe di Gallo condivide indole di ribelle e senso dell’onore. Il retroterra letterario è comunque marcato: Dashiell Hammett e Raymond Chandler, ovvero Sam Spade e Philip Marlowe, nonché le loro incarnazioni o filiazioni cinematografiche, da Humphrey Bogart di Il grande sonno di Howard Hawks (1946) a Jack Nicholson di Chinatown di Roman Polanski (1974). Mascara Snake ha in comune con i colleghi hard boiled la vocazione disinteressata per la parte oppressa della società in cui vive, l’incuranza nel mescolarsi all’umanità che popola i bassifondi, il consumo di alcol ad alta gradazione e tabacco dal gusto forte. A differenza di Spade e Marlowe, Mascara non è però un solitario assoluto: di volta in volta, è circondato da uomini amici che ne condividono valori e idealità, amici i cui nomi non sono scelti a caso, ma richiamano le frequentazioni dell’autore; al pari dei detective anni Trenta, però, non nasconde una vena misogina, innamorandosi di dark ladies interessate e infedeli e confinando le donne a ruoli marginali, non esenti da stereotipi. Alla deriva per definizione («Mi lasciai andare, come un cellophane strappato che danzi con la marea notturna, graveolente e gelida, della baia di Tokio»), Snake percorre i quartieri di una metropoli orientale, Osaka probabilmente, ma poco importa: «Acqua sporca e nera cola dal cielo sulla calca vociante, a L.A. come a Kinshasa come a Bangkok come a Milano»; spazia tra imprecisati luoghi in Europa e Asia, Mediterraneo orientale e Francia nord-occidentale; si imbarca a Melilla per Malaga, città che si fronteggiano dalle sponde contrapposte di un mare che «mangiava ogni settimana» migliaia di corpi. E convive con la disincantata consapevolezza di aver «perduto tutte le guerre» che ha combattuto.
I battitori del crepuscolo è un doppio specchio nel quale si riflettono Mascara (non ancora Snake) e Klaus Dry, searcher e data-man, umano-umano e umano-cyborg: «Spesso mi domandavo se Klaus fosse realmente vivo – si interroga il protagonista – se pensasse veramente a qualcosa di proprio, se avesse dei suoi sogni oppure fosse solo una macchina che gira in una carcassa umana, un terminale dell’high tech, un paradosso vivente come un libanese biondo…». I due si muovono in una metropoli che è tutte le metropoli senza soluzione di continuità, in un futuro prossimo che incombe: la pioggia sporca cade incessante; enormi schermi pubblicitari svettano sulle cime inarrivabili dei grattacieli; in basso, nella downtown, un’umanità brulicante e abbrutita, donne e uomini evaporati, morti alla società («Un uomo non muore, è lui che si scrolla la vita di dosso»); e droga, sesso, violenza. Atmosfere alla Philip Dick (e alla Ridley Scott), science fiction e noir, un ritmo dal quale è bene lasciarsi prendere senza volerlo comprendere nei dettagli, un torrente di citazioni letterarie e musicali, un pastiche di lingue differenti, di culture altre… E se in Mascara – malato oncologico che non ha denaro a sufficienza per curarsi – prevale una sorta di malinconia dolorosa, in Klaus gli innesti dei ricordi – in pieno flusso cyberpunk – portano quasi al cortocircuito «versi, strofe di canzoni, sequenze di fotogrammi» di un’esistenza (o di molte esistenze) vissute come inautentiche a dispetto di tutto ciò che le vorrebbe reali.
Se divergere dal sistema è lecito, lo è soltanto a patto di scardinarlo per propiziare un mondo più giusto, non per arricchire personalmente al costo di effetti collaterali devastanti (epidemie globali e traffico di organi, per esempio): questo lo fa già il capitale, da sempre. È Front end dance, ove Mascara Snake con Frank Smoking Paper e Peter Mandala va a comporre un trio di abilissimi hacker, veste abiti trasandati, potrebbe arricchire ma non ne ha interesse, imbraccia le armi per difendere migranti sprovveduti e (con calcolato eccesso) spazzare via skinheads; a loro si unisce talvolta Art Decad (omaggio a Claudio Asciuti, autore del racconto che con questo titolo apparve sul numero 7 di Un’Ambigua Utopia, nel 1980). L’ambientazione è spettacolare come sempre, sotto il profilo sia spaziale che temporale: il passaggio al terzo millennio, gli spostamenti dalle metropoli europee degradate («il sistema mondiale era assolutamente fuori controllo») ai deserti assolati della penisola araba o dell’occidente africano, e, ancora, le connessioni con le mafie internazionali, i meandri della rete telematica che sembra vivere di vita propria. Ricca, suggestiva, febbrile la prosa, così come l’azione, che si intervalla a momenti di quiete, seguendo la saggezza antica secondo cui l’operato umano è (quasi) insignificante e ininfluente nello scorrere delle cose. Se non fosse che c’è chi, tra gli umani, le cose le cambia, eccome: il nichilismo lascia spazio allora alla resistenza a «una nuova tirannia globalizzata e feroce, ma, allo stesso tempo, debole e instabile», alla quale si può e si deve opporsi (il Male non è necessario), sognando un altro mondo «per noi e i nostri figli».
Negras tormentas è il terzo episodio, a distanza, della serie di Mascara Snake, ora arroccato a Melilla, ultimo avamposto dell’Occidente che respinge l’assalto dei popoli africani in fuga da guerre ed epidemie. Il passato che non passa, il passato che ritorna si chiama Valeria: «elegante e bellissima, nascosta dagli occhiali da sole», è la donna che Mascara non ha mai smesso di amare «neppure per un giorno», che lo ha lasciato, che (forse) lo riprende, ma per puro interesse. Un personaggio negativo come pressoché tutti, o quasi, gli esseri umani di genere femminile che popolano i racconti di Gallo (femminista proprio no… beh, nessuno è perfetto), in questo caso accompagnata da un uomo che rappresenta il peggio della contemporaneità: trafficante, razzista, traditore (e non c’è “mi dispiace” che tenga). Potrebbe essere, nella triangolazione dei protagonisti, una riedizione di Casablanca (anche qui donne e uomini europei aspettano di lasciare l’Africa per trovare salvezza, ed è una fortuna che Gallo, tardivamente avveduto del calco, non abbia cestinato il racconto). No, non è un remake di Casablanca («Il mondo intero è andato in merda, non solo noi due, Valeria»), perché per quanto i ricordi esondino imponendosi al presente, non sono in gioco idealità se non da parte di Mascara, eroe romantico più di quanto vorrebbe dare a vedere, e dei suoi compagni di lotta, primo tra questi Bashir, che «a Genova aveva sparato contro una ronda che si accaniva su un africano ed era dovuto fuggire lasciando quattro morti in via dei Giustiniani». Ed è durissimo amare, non aver smesso di amare, una donna che tali idealità non condivide. Ancora una volta, poi, Gallo costruisce una tessitura di citazioni suggestive: romanzi (Philip Roth) e liriche (Eliot e Keats), sure coraniche e canzoni anarchiche, mai scelte casualmente, e sonorità di lingue mediterranee che è bello ascoltare.

Negli anni Novanta, altri racconti che si connotano per la violenza fine a sé stessa (l’apocalisse è già avvenuta, l’umanità è in macerie) e per le incursioni ostentate nell’osceno (a chi legge giudicare se tali incursioni accendono il desiderio o lo dissolvono).
Killer Elite è un testo scritto nel 1994 e dimenticato dall’autore, perciò rimasto inedito. Vi dominano la violenza e la morte senza ragione, senza perché: la voce narrante e l’amico Cranio Rasato in una missione che non viene svelata, citazioni cinematografiche (Alfred Hitchcock, Sam Peckinpah, John Carpenter) a marcare inquadrature e sequenze, la consueta, maniacale precisione nell’esplicitare le armi con le quali si ucciderà.
Bacteriological night fever (1996) è ugualmente duro, inquietante, senza speranza alcuna. La tragedia, in apparenza, è iniziata per caso, in realtà era annunciata da tempo: repressione, guerra, immigrati ammazzati per le scale, batteri fuori controllo, zone rosse, frontiere chiuse… Tre uomini, tre randagi, in un appartamento abbandonato in una Venezia marcescente, la laguna attraversata da stalker con il rischio di essere intercettati dai droni, incapaci di solidarietà, ciascuno lupo verso l’altro, con splendide descrizioni del vuoto e della rovina, di un frammento di una fuga senza fine, verso il nulla.
«Entro in questa stanza solo per scrivere, quando decido di non essere e un’altra persona inizia a vivere in me come uno spirito o un vampiro»: Nico Gallo esplicita lo sdoppiamento in Elisabetta Batori (in arte Martha Bellows) nel racconto Il fuoco brucia la tua virtù (1999). Una doppia vita, un’altra vita, quando il protagonista diviene un’altra persona, seduto (seduta) alla scrivania a digitare romanzi rosa (o soft porno) che pubblica sotto pseudonimo. Scrittura e lettura sono un gioco di seduzione, per il personaggio che dice io e per la prostituta polacca osservata dalla finestra, ben più dei rapporti sessuali descritti sulla carta (un’improbabile relazione al tempo della Rivoluzione francese) o vissuti nella realtà (senza passione, come non può non essere) per potersi, letteralmente, pagare il pane. Sullo sfondo, immancabile, Genova: «file serrate di un corteo di case addossate al mare; la città vista dall’alto sembra una frana di tegole rosse e d’ardesia grigia contenuta a mala pena dalla diga invisibile dei moli del porto vecchio. Poco lontano, oltre l’acciaio della sopraelevata, un trapezio di acqua livida intrappolato dalla geometria nervosa del vicolo e dal cielo basso ricorda che siamo quasi in riva al mare. Un mare fermo e oleoso, incapricciato dalle scie e dai guizzi dei cefali del porto»; Genova con il porto vecchio e i vicoli degradati, i migranti che parlano lingue diverse e che reciprocamente si ignorano, la voce di Demetrio e la musica dell’International POPular Group che sale da due piani più sotto.
Impossibile dormire la notte qui (2003) istruisce su che fare quando la guerra devasta la tua vita e la tua città (Genova e la memoria del G8, dei disobbedienti, di Piazza Alimonda): prosaicamente, connettersi a siti pornografici, scorrere le immagini di fellatio e penetrazioni…
Negli anni Duemila Nico Gallo intreccia le vicende di Mascara Snake (e altre, come si è visto) a una breve serie di racconti tra anarchismo, sterminio e Resistenza, uno più bello dell’altro. È come se l’autore riattraversasse alcuni crocevia della storia del Novecento, che non ricordiamo abbastanza – no, mai abbastanza – per marcarne il carattere fondativo, per rivisitarli nel flusso delle possibilità non realizzate, per serbarne memoria fertile per il tempo presente e per quello futuro: in questo paese, che con cinismo e ferocia non ha mai fatto i conti con il fascismo, autoassolvendosi, il passato non passa, non può passare. Questo filone narrativo si accompagna alla ricerca storico-letteraria di Gallo, che genera la curatela di due volumi di prose partigiane: Storie della Resistenza, con Italo Poma (Sellerio 2013) e Fermammo persino il vento, con Marco Codebò (Shake Edizioni 2021). La patria del ribelle (2001), Il parco dei morti (2012), Vedi la mia gente che non può morire (2015) costituiscono dunque un trittico che declina forme di Resistenza (e di memoria) possibili.
Nel sogno, la violenza è lecita: La patria del ribelle – racconto anarchico che ci interroga sulla liceità di uccidere un tiranno, i tiranni – ha le movenze di un sogno, non semplicemente di un’ucronia. Platone e Seneca, Tommaso d’Aquino, Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo non solo teorizzano la disobbedienza civile, ma giungono ad auspicare la morte di chi sopprime la libertà del proprio popolo, a legittimare il tirannicidio, purché chi lo compie non ne tragga benefici personali ma agisca in nome della comunità. Non un futuro distopico, ma ucronico: come si esplicita all’inizio del racconto, è il 2 giugno 1947, quando da un anno si celebra la vittoria della monarchia sulla repubblica a seguito del referendum istituzionale. Una storia a rovescio, eppure tristemente uguale a sé stessa; e nella storia a rovescio occorre una nuova insurrezione a fermare un rinnovato governo fascista, nella quale (è un sogno, sì, è un sogno) ciascun movimento o partito che abbia a cuore la libertà farà la sua parte. Luogo dell’azione è Carrara: in piazza Farini, «quelli del Partito d’Azione stavano presso la statua del cavallino, non lontani dai socialisti. I comunisti erano assisi sotto i portici del Teatro Verdi, ed erano gli unici che potevano continuare a discutere con il cattivo tempo. Gli anarchici, invece, si erano attestati, da generazioni, nei pressi della fontana del cinghiale». La guerra non è finita, il nuovo ordine politico ha sancito l’alleanza di monarchici e cattolici e ora apre ai fascisti; e gli anarchici (neppure l’uno per cento, ma esistono), i comunisti, i socialisti, gli azionisti non ci stanno, non ci sta l’insieme variegato che diede vita alla Resistenza, nata dopo l’8 settembre 1943, la Resistenza che non avrebbe dovuto terminare il 25 aprile 1945, dopo i venti mesi più angosciosi della storia d’Italia, quelli dell’occupazione nazista e della Repubblica Sociale Italiana che ne fu complice efferata. Da Carrara l’azione si sposta a Genova, con le sue frotte di lavoratori del porto, «la Genova che non ha mai abbassato la testa […], loro e gli operai metallurgici dell’Ansaldo, loro che hanno difeso metro per metro le banchine e le attrezzature dalla rappresaglia dei nazi–fascisti, loro che non andarono mai ad applaudire il duce, o il re o altri fantocci». Protagonisti indimenticabili cavatori e operai, camalli e antifascisti: Gino e Ovidio, Sandrino e Loris, Claudio e Francisco. Libertà e giustizia non sono per sempre, si lotta anche per le piccole cose, a «piccoli passi»: per un salario più alto, la riduzione della giornata di lavoro, le condizioni più sicure… L’orizzonte dell’utopia serve a camminare, insieme.
Il parco dei morti è il Tiergarten, il giardino verde di Berlino, che Tiergartenstrasse costeggia lungo il lato meridionale, fino alla Porta di Brandeburgo. Per ragioni incomprensibili e misteriose, Berlino, città «disseminata di morte», è divenuta luogo di morti; Valerio – si scopre ben presto – è l’unico vivo in città, una città di cui si sono impossessati i fantasmi, abbandonata da donne e uomini, da una popolazione che si è portata dietro perfino gli animali dello zoo, una città privata della corrente elettrica, in lento e inesorabile degrado. «Durante la prima notte buia, un impressionante lamento si alzò nel cielo, un urlo composto da ognuno degli urli che si levavano dai luoghi della morte. Urlavano gli ebrei uccisi agli angoli delle strade durante la notte dei cristalli, bruciati nella sinagoga del Mitte tra le risa del popolo riunito in strada, urlavano i comunisti torturati e decapitati a Plotzensee, urlavano i prigionieri del Bendlerblock, urlavano i carcerati nelle celle imbottite della Stasi; ma Valerio Marchi distingueva, tra tutte le urla, quelle assurde e impaurite, distorte, di Tiergartenstrasse 4». È una presenza inquieta, Valerio, accolto dalle pallide ombre degli assassinati dalla violenza politica, da Rosa Luxemburg a Benno Ohnesorg, e soprattutto delle migliaia di vittime dell’Aktion T4, il programma di sterminio delle persone con disabilità pianificato dal nazismo, che si rovesciò su donne e uomini, bambini e bambine. Bellissima la scenografia della città deserta, abitata da presenze ‘altre’, dolenti e umanissime nel chiedere di non essere dimenticate, mentre il mondo continua «indifferente la sua vita colorata e allegra»; efficaci i personaggi di Valerio, in cerca dell’impossibile rivelazione, e di Michela, che giunge con il proprio portato di dolore a svelare la propria desolata verità.

«Vedevamo un mondo molto più netto: o vincevano i fascisti, e allora morivamo tutti, o vincevamo noi, e allora… allora era un altro mondo!» dichiara Giuliana Gadola Beltrami nel cinquantesimo della Liberazione. Abbiamo vinto, in quel lontano 1945, ma non è stato un altro mondo, proprio no. Non è bastata la vittoria della repubblica al referendum istituzionale: ci sono state, poi, l’amnistia Togliatti; la mancata epurazione dei fascisti dall’esercito, dalla magistratura, dalle forze dell’ordine; la fuga dei nazisti (Adolf Eichmann, Josef Mengele, Erich Priebke, soltanto per citarne alcuni), con la complicità del Vaticano e della Croce Rossa Internazionale, nell’Argentina peronista, patria di riserva; c’è stata, infine, la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del 18 aprile 1948. Alla fine degli anni Quaranta, a Genova (con Torino e Milano al centro degli scioperi antifascisti del 1944), non tutti hanno deposto le armi… Straordinario protagonista di Vedi la mia gente che non può morire è il piccolo Nico, che frequenta la scuola elementare, legge romanzi d’avventura (anzi, la serie Il Romanzo d’Avventure, che pubblica tra gli altri Salgari e Wells), capta suo malgrado i pensieri di chi gli sta vicino («quella radio che gli si accendeva all’improvviso in testa erano i pensieri degli altri, quelle parole che la gente si formava in testa ma non diceva»): i pensieri delle donne del quartiere popolare in cui vive, che hanno perduto il figlio nella campagna di Russia o nell’insurrezione che ha messo fine alla guerra; del maestro che incoraggia la sua passione per la lettura; del tedesco che fuma affacciato a una finestra, i fili del bucato tesi tra due case del vicolo. Nico che vive con la madre e il nonno, che aiuta Daniela nei compiti, che è irriso dai compagni. Nico che con la sua capacità di percepire anche le visioni altrui (quella «fila di persone morte in un prato che costeggiava una strada sassosa») dà il via a una vicenda che tocca i nervi scoperti dell’Italia dell’immediato dopoguerra, mescolando la vita e lo sguardo dell’infanzia (impagabile la sequenza in cui il nonno vorrebbe che il nipote imparasse a nuotare) con l’attività di un gruppo partigiano che non si è arreso, non ha dimenticato, non si è normalizzato. Delicatezza e malinconia, amarezza e sconfitta, in un racconto che appassiona chi ama la storia contemporanea e smuove gli affetti, guardando con gli occhi dell’indimenticabile maestro Penco: «Vedeva nelle persone davanti a lui la frustrazione di una vittoria che gli era stata negata, l’amnistia, la disoccupazione, il ritorno al lavoro in condizioni inaccettabili. Avevano combattuto contro il fascismo, ma anche, come avevano discusso per mesi, per una società socialista che non si era realizzata».
No, non lo abbiamo quel mondo migliore che sognavano i resistenti, uomini e donne, che «allora prendevano le decisioni assieme […] e assieme le portavano a termine»; quel mondo che, se non noi, almeno i nostri figli e figlie avrebbero dovuto vedere, come volevano quelle donne e quegli uomini che certo non si sarebbero «mai aspettati di vedere ancora i fascisti per le strade, no, questo no!» (così Giuliana Gadola Beltrami), e al governo, poi…
Per questo scrive Domenico Gallo: ribelle della montagna con le armi della parola e della memoria, dello spirito di comunità e della Resistenza, è ancora in cammino ora che il vento non è cessato, che la bufera non si è calmata, e ancora nella notte lo guidano le stelle.
Aggiungi un commento
Fai login per commentare
Login DelosID