Marte era la nuova frontiera. Mentre la Terra si dibatteva tra cambiamento climatico, guerre per le materie prime, estremismi politici e fanatismi religiosi, sul Pianeta Rosso si cercava con fatica di costruire un nuovo mondo.

Per decenni era stato abitato soltanto da IA, stampanti 3D e robot che, dall’interno di grandi caverne, edificavano le colonie. Poi era venuto il tempo dei coloni: ingegneri, tecnici e scienziati di ogni disciplina, destinati a popolarle e iniziare l’opera che avrebbe dovuto portare Marte a divenire un pianeta abitabile per la specie umana. E i figli, con loro, perché le colonie non erano solo un luogo di lavoro ma dovevano diventare una nuova casa.

Le famiglie si accalcavano sugli shuttle che le portavano alle stazioni orbitanti attorno alla Terra. Di lì, senza dar loro nemmeno il tempo di dare un’occhiata allo spazio esterno, venivano imbarcate sulle enormi astronavi coloniali destinate a trasportarle verso la loro nuova patria.

La Pioneer IV era una di loro: i suoi motori nucleari la stavano scagliando nel vuoto dello spazio, a velocità sempre maggiore, su una rotta che l’avrebbe portata in orbita attorno alla sua destinazione. La cabina 2795 del ponte 8 era, come tutte le altre, piccola e priva di comodità. Un letto per il Padre e la Madre, uno più piccolo per Sebastian, un tavolino, due sedie e un minuscolo bagno. I coloni venivano scelti tra coloro che non soffrivano di fobia per gli spazi stretti. Era il periodo notturno (durante il viaggio si manteneva il ciclo sonno/veglia, anche se era pura convenzione), così la cabina era buia, salvo la luce d’emergenza soffusa e bluastra che veniva dal soffitto.

Sebastian si lasciò sfuggire un gemito, nel sonno, per il caldo. Era soffocante lì dentro. Strinse i pugnetti e si rigirò, senza svegliarsi.

La Madre sospirò. Era seduta nel letto e lo stava guardando, da lunghi minuti, con assoluta intensità. Da quando erano partiti provava un’inquietudine persistente, come il presentimento di una futura disgrazia.

– Dovresti cercare di riposarti – le disse il Padre, in tono basso e partecipe. Aprì gli occhi e la fissò. Lei non rispose. Lui si tirò su e le mise una mano sulla spalla nuda. – Abbiamo preso la decisione giusta, lo sai. Sulla Terra la situazione peggiorerà sempre più. E Marte… all’inizio sarà dura, sì. Ma quando lui sarà grande andrà meglio. Meglio della Terra di certo.

Il Padre era un uomo che parlava poco. Quello era un lungo discorso, per le sue abitudini, e lei ne fu colpita. Annuì appena perché sapeva tutto ciò, ne avevano parlato fino allo sfinimento. E tutti e due erano d’accordo che la loro decisione era giusta, per il piccolino prima ancora che per loro.

Sebastian ora dormiva tranquillo. Lei ne sentiva i lunghi respiri, le sue labbra erano piegate in un sorriso. Era un bambino così bello! E così sereno. Aveva accettato tutto quel trambusto senza piangere troppo. Lo baciò sulla fronte, appena un tocco leggero.

Sentiva che se avesse continuato a guardarlo si sarebbe commossa così si voltò verso l’uomo. Il suo volto illuminato da quella luce innaturale aveva un colorito inquietante. Si ritrovò a pensare che sembrava un alieno. Sorrise a quell’idea assurda.

– Lo so – ammise infine. – Eppure… ho paura. È irrazionale, no?

Gli occhi del Padre sorrisero. Ogni volta che lo faceva riusciva a rassicurarla. – Forse, ma è anche naturale. Stiamo andando verso un nuovo mondo, avere paura delle novità è normale. E noi siamo i suoi genitori. Ci preoccuperemo per lui finché saremo vivi, anche quando sarà adulto. È il destino di ogni genitore.

Lei sospirò di nuovo. Certo, era così, lo sapeva. Era razionale e il Padre era di indole taciturna ma sempre molto razionale. Capì che si stava sforzando di parlare più del solito perché aveva compreso il suo momento di crisi e si sentì commossa dalla sua premura. Gli accarezzò la guancia e gli diede un bacio. Si sdraiò al suo fianco, dopo aver dato un ultimo sguardo a Sebastian. Chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi. Si disse che stava andando tutto come previsto, non c’era motivo di preoccuparsi. Però continuava a farlo.

Per due giorni la Pioneer IV continuò nella sua corsa. La vita dei coloni era, durante il viaggio, noiosa: studiavano e si preparavano per i compiti che avrebbero rivestito a destinazione, facevano ginnastica, mangiavano e dormivano. La Madre stava quasi per placare le proprie paure.

Fin quando, il terzo giorno, successe.

Erano nella sala mensa comune del ponte, uno stanzone basso e gigantesco con tavoli senza fine. Il secondo turno, quello più affollato. Il rumore era assordante: migliaia di persone, rivestite nelle loro tute grigie, tutte uguali, che parlavano, sbattevano le posate sui piatti e i piatti tra loro, scuotevano i vassoi, si alzavano e sedevano facendo stridere le sedie contro il pavimento. E decine di bambini, piccoli e grandi, che urlavano, piangevano e protestavano. Il flusso dei coloni che andavano a prendere cibo e lo portavano al tavolo era incessante.

Il Padre e la Madre erano seduti uno a fianco all’altra. Lui aveva nel piatto degli spaghetti alla soia, lei una minestra di riso e dava da mangiare a Sebastian, che era seduto su un seggiolone tra i due. Prendeva una cucchiaiata di omogeneizzato e lo agitava nell’aria, fingendo che fosse un’astronave, facendo degli assurdi rumori. Il bambino rideva, divertito, fin quando il cucchiaio non picchiava all’improvviso, infilandosi nella sua bocca.

Anche la Madre sorrideva. Dare da mangiare al figlio era una delle attività che amava di più. Lui faceva dei gorgoglii, che si tramutavano in risate, gonfiava le guance e agitava le mani. Le sue dita stavano diventando sempre più grassocce, si accorse. Non riuscì a non baciagli la fronte e lui rise.

– Cerca di mangiare anche tu, però – le disse il Padre, ma comunque sorrideva, divertito, guardandoli.

Stava per rispondere che era stanca del cibo insapore dell’astronave quando l’illuminazione d’improvviso si spense, lasciando accese soltanto le luci di emergenza. Un boato di sorpresa si levò nella sala mensa. Non era mai successo. La Madre sentì qualcosa di gelido afferrarle la nuca e il respiro che si mozzava. Paura. Paura che il suo presentimento stesse per realizzarsi. Guardò il Padre, terrorizzata. Lui aveva la bocca aperta ma non parlava, i suoi occhi erano confusi.

– Vi prego di mantenere la calma – disse la voce del comando missione. Una voce fredda e impersonale, che non la tranquillizzò. Dopo un istante apparve un volto, fluttuante a mezz’aria. Era l’immagine di una donna seria e rassicurante, realizzato dall’IA dell’astronave per parlare agli esseri umani. Fece un breve sorriso, muovendo appena le labbra carnose e rossastre. – I sensori hanno evidenziato la presenza di un oggetto non identificato che sta procedendo a velocità elevata verso di noi. – Parlava in tono lento e tranquillo, quasi ipnotico. – Stiamo compiendo le correzioni di rotta necessarie per evitare un impatto che è comunque un evento estremamente improbabile. Non c’è, ripeto, non c’è motivo di preoccuparsi. Rimanete seduti ai vostri posti e allacciate le cinture di sicurezza.

Le sedie si fissarono magneticamente al pavimento. Un rumore secco testimoniò che migliaia di cinture si erano liberate dai loro alloggiamenti nello stesso istante. Prima ancora che la voce avesse finito lei aveva già allacciato quelle di Sebastian. Il bambino guardò la cintura e prese a giocarci, divertito da quella novità. Poi la donna tirò e allacciò la propria, in fretta.

Il vociare della sala mensa si era di colpo zittito. Le sembrava di percepire la paura collettiva, una cappa fredda che era scesa su di loro. Gli occhi di tutti si erano fatti terrei. Fissò il figlio, l’unico che non era spaventato. Stringeva i pugnetti e sorrideva, sereno.

Passarono alcuni lunghissimi minuti. Cercò di percepire se l’astronave cambiava rotta, anche se sapeva che il sistema inerziale rendeva impossibile farlo. Quasi trattenne il respiro, finché non sentì di nuovo la voce rassicurante dell’IA.

– Sto per ordinare la riaccensione delle luci. L’oggetto volante ci sta passando vicino ma a distanza di sicurezza, non c’è rischio che ci colpisca. Potete slacciare le cinture di sicurezza.

Un sospiro di sollievo generale accolse quelle parole. È andata, pensò lei, sentendo un macigno che le si sollevava dal cuore. Sorrise al marito che le restituì il medesimo sorriso rassicurato.

Le luci si accesero. E Sebastian, semplicemente, scomparve.