Due persone alla ricerca della verità e in mezzo vari complotti e cospirazioni. Una di queste è Franco Giordano, giornalista del Corriere della Sera, che cerca di capire se dietro gli eventi globali che affollano i titoli dei giornali, esiste una verità nascosta, una rete di poteri occulti che manovra le sorti del mondo nell'ombra. Intrighi internazionali, mercanti d'armi, governi corrotti e forze segrete tirano i fili di un conflitto pronto a esplodere su scala globale. Ma chi sta davvero orchestrando questa partita? E quale sarà il prezzo della verità?

È questa, in sintesi, la trama di Quello che le stelle non dicono di Dario de Judicibus, romanzo che ha vinto il premio Odissea, Dario è nato a Brescia nel 1960, si è laureato in Fisica all'Università degli Studi di Firenze e ha lavorato come ricercatore a Stanford e al CERN. In seguito si è occupato di informatica, collaborando con riviste come MC MicroComputer e Internet News, e ha pubblicato vari articoli sia in italiano che in inglese su riviste e quotidiani, sia nazionali che esteri. Inventore, ha otto brevetti internazionali al suo attivo. Nel 2004 ha fondato la rivista digitale L'Indipendente, mentre nel 2014 ha fondato con altri soci una scuola di cinema e televisione a Cinecittà, la “Roma Film Academy”.

Come scrittore ha pubblicato sette romanzi, quattro romanzi brevi, sei racconti in raccolte di autori vari, un'antologia personale di otto racconti, quattro saggi e due manuali. Ha inoltre scritto alcune sceneggiature e partecipato alla produzione di tre musical dal vivo in Second Life, di uno dei quali ha curato la regia. Con Delos Digital ha pubblicato e completato una nuova edizione della sua trilogia fantasy La Lama Nera e pubblicato vari racconti e romanzi brevi di fantascienza.

A Dario de Judicibus abbiamo rivolto alcune domande su Quello che le stelle non dicono, romanzo che è stato pubblicato in cartaceo e digitale da Delos Digital nella collana Odissea Fantascienza.

Nella collana Robotica, hai pubblicato per Delos Digital due romanzi brevi «Exo» e «Gli Altri».  Ci vuoi raccontare un po’ di cosa parlano? 

Iniziamo con “Gli Altri”. Quando l’ho scritto, mio padre soffriva di Alzheimer. Prendeva dei farmaci che gli garantivano un certo livello di lucidità, ma come molti malati di Alzheimer, viveva in un mondo tutto suo, fatto in parte di realtà, in parte di ricordi confusi e di vere e proprie allucinazioni. Un giorno, accompagnandolo in una passeggiata, iniziò a raccontarmi una di queste allucinazioni. In genere la gente non presta attenzione ai racconti di persone che hanno questo genere di patologie, ma io sono uno scrittore e quindi “un ladro”, ovvero “rubo” idee ovunque mi capiti di poterlo fare. Così ho iniziato ad ascoltarlo con attenzione. Era un’idea assurda, bislacca, ma terribilmente coerente nel suo essere fantasia. Così mi sono chiesto: e se avesse ragione lui? Se il mondo fosse davvero come lo descrive lui e fossimo noi i pazzi, ciechi alla realtà, che non se ne rendono conto? Da qui il romanzo breve in questione e il conseguente titolo.

“Exo” ha avuto una genesi completamente diversa. È un periodo in cui l’umanità sta tornando a essere sempre più violenta: guerre, conflitti di vario genere, violenza domestica. La mia generazione, forse ingenuamente, era quella del “fate l’amore, non la guerra”, cosa che tuttora considero un gran bel consiglio, soprattutto per la parte relativa al sesso. Ma evidentemente, diventare più civilizzati sul piano tecnologico, non ci sta facendo diventare più civilizzati anche per tutto il resto. Siamo ancora degli adolescenti con una tempesta ormonale in corpo e quello che sta succedendo in Ucraina e in Palestina ne è un’ulteriore dimostrazione. Inoltre c’è il problema del cambiamento climatico, della scarsità di risorse, della transizione energetica, della sovrappopolazione. Come risolvere tutto questo? La risposta la trovate nel romanzo.

Sei laureato in fisica e hai lavorato al Cern di Ginevra. Quanto è stato importante questo tuo background scientifico per dedicarti alla scrittura di storie di fantascienza? 

Direi fondamentale. Il termine fantascienza è formato da due parole, una che ne evidenzia la natura fantastica e l’altro che ricorda come abbia comunque fondamenta di carattere scientifico. L’arte dello scrittore è bilanciare questi due aspetti. Nel fantasy succede lo stesso, solo che lì l’aspetto fantastico è nella Magia e quello realistico nella Storia. E altrettanto succede nell’horror, dove l’Orrore può avere un suo Fascino. Possiamo dire che tutta la letteratura fantastica vive di questo equilibrio fra fantasia e realtà. La parte reale, verosimile, è altrettanto importante quanto quello fantastica, anzi, le fa da contrappunto e la rende proprio per questo più accettabile. Pensate a una serie televisiva come “The Expanse”: la verosimiglianza dell’ambiente spaziale, rende del tutto normale e accettabile la componente “aliena” della serie. Certo, in un romanzo di fantascienza non devi spiegare e giustificare ogni singola scelta tecnologica, ma proprio perché non lo fai, a maggior ragione, là dove parli di tecnologie che esistono o facilmente realizzabili in futuro, devi essere preciso, puntuale. C’è da considerare che quando scrivi, non sai chi ti leggerà. Il che vuol dire che qualcuno che si renda conto che hai scritto qualche sciocchezza ci sarà sempre. Presi nel loro insieme, i lettori sono molto più esperti di chi scrive. D’altra parte io mi considero un “uomo rinascimentale”, ovvero mi piace creare sinergie fra discipline scientifiche e umanistiche, per cui do molto spazio al fattore umano e agli aspetti psicologici ed emotivi. Un altro aspetto in cui la mia formazione di natura scientifica ha aiutato è il metodo: quando scrivo un romanzo sono sistemico. Faccio ricerche, sopralluoghi, intervisto persone, mi costruisco un vero e proprio piano di lavoro. Questo perché, mentre un racconto può essere buttato giù di getto, un romanzo richiede metodo. Un esempio che spesso faccio è il pensare a un racconto come a una tenda da campeggio che monti in pochi minuti rispetto al tirar su un palazzo, ovvero il romanzo, che richiede pianificazione e competenze specifiche.

Partiamo dalla genesi di «Quello che le stelle non dicono», che è del tutto singolare. Vuoi raccontarcela? 

Tutto è nato da una provocazione, o direi, quasi una sfida, che Silvio Sosio ha “gettato” in rete qualche tempo fa: scrivere un romanzo in cui tutte le teorie complottistiche fossero vere. Ora, io sono sempre stato uno sportivo, fin da ragazzo. Non parlo di uno che guarda lo sport ma che lo pratica a livello agonistico. Sono stato uno dei primi a praticare windsurf fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta del XX secolo. Quando ho iniziato, anche solo per tirar su la vela, era un continuo cadere in acqua. Poi, man mano che imparavo, ovviamente provavo a fare cose sempre più difficili, e di nuovo tornavo a fare dei gran bei tuffi di pancia o di schiena. Quello che intendo dire, è che non sono uno che si accontenta: se riesco in una cosa, non continuo a fare quella cosa, ovvero provo a fare qualcosa di più difficile. Col rischio di sbagliare, ovviamente. Ecco perché ho accettato la sfida: da ex-ricercatore, era difficile per me scrivere qualcosa che personalmente ritenevo del tutto assurda e questo rappresentava una sfida a livello personale. Io scrivo innanzi tutto per me, perché scrivere mi fa sentire bene, mi permette di esprimere ciò che sento dentro di me; In secondo luogo, ovviamente, scrivo per i lettori e le lettrici, perché quando provi qualcosa di bello, viene spontaneo volerlo condividere. Non è facile essere originali nello scrivere una storia, perché è stato scritto di tutto e di più, ma se affronti una sfida difficile, è molto probabile che quello che produrrai sarà interessante. Un po’ la stessa differenza che esiste fra gruppi come i Pink Floyd o la PFM e le classiche canzonette che durano al massimo una stagione. Certo, quest’ultime hanno maggior successo fra i più, ma fra chi è davvero appassionato di musica, il confronto non regge, e gli appassionati di fantascienza sono una élite, comunque. Meritano qualità.

Qual è stata la tua reazione quando hai saputo che il romanzo ha vinto il premio Odissea? 

Oddio, non avevo mai partecipato a un concorso letterario. Sinceramente non mi ero mai interessato di queste cose. Mi sono sempre visto come parte di una filiera in cui io produco contenuti e qualcun altro, che sa farlo meglio di me, ovvero l’editore, li vende. Quindi, quando mi è stato proposto di provarci, l’ho fatto senza alcuna aspettativa. Io non sono famoso, neppure nel settore, perché non mi faccio vedere molto, non sono bravo a “vendermi”. Non pensavo davvero di vincerlo. Per me è stato un momento emozionante. So che altri scrittori ne hanno vinti parecchi, quindi non è il caso di montarsi troppo la testa, ma devo dire che mi ha fatto davvero piacere. E forse mi ha anche fatto uscire un po’ dal guscio.

Senza svelarci nulla, ci racconti almeno un complotto che hai inserito nella trama? E che idea hai, in generale, sui complotti e sulle fake news sulle quali prendono forma. In altre parole, perché molta gente crede a cose che sono evidentemente false? 

Beh, posso tranquillamente dirvi che ci sono sia i Grigi che i Rettiliani, tanto per nominarne una, di teorie del complotto, tanto sono in copertina e quindi non vi sto anticipando nulla. L’idea di forze oscure che governano il mondo è molto affascinante e si presta a giustificare tante cose per le quali dovremmo solo rimproverare noi stessi. E questo è uno dei motivi per cui i complotti piacciono. Ci danno la scusa di non vedere una realtà che non ci piace, perché ci vede quanto meno complici di tante brutte cose che succedono nel mondo. È più facile pensare che la colpa sia di qualcun altro. L’altro aspetto è una sorta di senso di inferiorità. Si stabilisce che chiunque abbia una certa competenza sia parte di un qualche complotto, che usi la propria conoscenza per non far sapere una qualche presunta “verità”, verità che, ovviamente, i complottisti, pur non avendo alcuna competenza in materia, scoprono grazie alla loro “intelligenza superiore”, frutto dell’università della vita”. In pratica, sono tutti geni tranne quelli che lo sono veramente: loro sono i poteri oscuri: la rivalsa degli “asini” contro i “secchioni”.

Parliamo del protagonista del romanzo, Franco Giordano, che è un giornalista free lance. Raccontaci un po’ chi è? 

Franco è il classico giornalista investigativo. In realtà, l’uso della parola “classico” sarebbe discutibile, dato che a fare giornalismo di quel tipo sono rimasti in pochi, almeno in Italia. Diciamo che è quello che a mio avviso dovrebbe essere un giornalista: curioso, scettico, che non ha paura di andare a fondo alle cose ma che cerca sempre un riscontro alle notizie che trova. Solo che questa volta si troverà di fronte a quello che solitamente considera “fake news”. Essendo però un giovane intelligente, prende atto della realtà, finendo per fare squadra con l’ultima persona al mondo con cui mai avrebbe pensato di poterlo fare: Isabelle Blanchard, una complottista francese di origine senegalese, che ha vissuto buona parte della sua infanzia in Italia. All’apparenza, Franco ha un atteggiamento spensierato, dato che sembra non prendere nulla sul serio, ma è solo un modo per gestire le difficoltà del suo lavoro, essendo un reporter di guerra e avendo visto quindi cose decisamente “pesanti” nel corso degli anni, pur essedo ancora giovane. È una persona fondamentalmente onesta e generosa, spesso disposta anche a correre rischi pur di aiutare chi ne ha bisogno, cosa che a volte lo mette in situazioni difficili, dalle quali, tuttavia, è sempre riuscito a tirarsene fuori da solo.

Anche qui, senza svelare troppo, chi sono i Rettiliani e i Grigi? 

Qui il problema era davvero essere originali, perché su chi sono Grigi e Rettiliani si trova di tutto e di più, in rete. Più che altro serviva un buon motivo per cui specie così tecnologicamente avanzate avessero bisogno di manipolare le sorti della specie umana. Doveva essere qualcosa di realistico, proprio perché del tutto fantasiosa come teoria. Per fortuna mi è venuto incontro la buona vecchia Storia dell’umanità, che ci insegna come dietro a tutti i conflitti, ci sono due cose: soldi e valori. La maggior parte delle guerre scoppiano per ragioni economiche, rafforzate in un modo o nell’altro da differenze valoriali che spesso vengono usate come unica ratio per giustificare l’utilizzo della forza bellica. Altro davvero non posso dire.

Il romanzo è di fantascienza, ma è anche un thriller mozzafiato e ha anche elementi da spy-story. Quanto ti piace mescolare fra loro i vai filoni della narrativa di genere? 

Ho sempre pensato che non esistano gli scrittori e, chiaramente, le scrittrici di genere, o meglio, che il genere letterario sia piuttosto un’invenzione di natura commerciale per gestire determinati, o forse dovrei dire, presunti, settori di mercato. Uno scrittore è uno scrittore e basta: è un cantastorie. O è bravo a raccontare una storia, oppure non lo è. Che poi la storia si svolga nella giungla vietnamita in un periodo storico reale, nella periferia di Roma del XXI secolo o su un pianeta aliena nel 2378 dopo Cristo, cambia poco. Io non mi considero uno scrittore di narrativa fantastica, ma solo uno scrittore. Penso che potrei scrivere qualsiasi cosa, se volessi. Fantascienza e fantasy mi danno tuttavia la possibilità di provocare il lettore su aspetti, che altrimenti riconoscerebbe subito, e per i quali ha già una posizione predefinita. A me piace spezzare pregiudizi, rompere tabù, far pensare. Non c’è nessuno dei miei racconti o romanzi che è fine solo all’intrattenimento. Dentro ci sono sempre uno o più messaggi, spesso di carattere sociale. Credo che sia un dovere per chiunque scriva, di provocare il lettore o la lettrice ad andare oltre alla storia, di lasciar loro qualcosa che rimanga dopo l’ultima pagina e che possano portare con sé fino al prossimo romanzo.

La domanda finale è d’obbligo: stai pensando a un seguito di «Quello che le stelle non dicono?» 

No. Questo romanzo, come quello che sto attualmente scrivendo, è un romanzo singolo, senza prequel o sequel di alcun genere, ovvero autoconclusivo. Ho scritto varie saghe e sono progetti molto complessi, se si vuole dare a ogni romanzo lo stesso livello di qualità. Quando scrivo una trilogia, ce l’ho in mente per intero. Non scrivo mai un romanzo e poi faccio un sequel solo perché ha avuto successo. Se scelgo di spezzare un’opera in più parti è perché la storia merita di essere così suddivisa, altrimenti faccio un singolo testo “secco” e la chiudo lì. Chi legge merita di sapere fin dall’inizio in cosa si va ad impegnare. Prima di essere scrittore, sono stato un lettore appassionato di narrativa fantastica e non solo. Ho più di cinquemila volumi nella mia libreria e voglio evitare ai miei lettori le delusioni che ho avuto io quando ho letto saghe rimaste incompiute o opere di buona qualità, forzate ad avere un secondo o terzo volume deludenti, solo perché il primo era andato bene.